Ricevo dal Rotary Club di Palermo l’invito a partecipare al Forum interdistrettuale, abbinato al premio Pasquale Pastore, dal titolo “Testamento biologico e/o eutanasia”. Il Forum, interessantissimo, avrà luogo il 2 e 3 maggio in Mondello Palermo) e, purtroppo, dovrò privarmi del piacere di essere presente a causa di precedenti impegni di lavoro. Ma qualche riflessione, adesso, mi piace farla.
Devo dire, innanzitutto, che mi capita sempre più spesso, da qualche tempo, di soffermarmi a riflettere su qualcosa della vita e mi accorgo di farlo, adesso, con un’ intensità maggiore rispetto a quella profusa in età più giovane o, anche, rispetto a qualche anno fa. Deduco, quindi, che la mia età attuale – ovviamente parlo solo per me stesso – mi consente (o mi obbliga?!) a vedere gli aspetti e le cose della vita in maniera diversa rispetto a qualche anno addietro; cioè, oggi forse mi soffermo a riflettere con più sensibilità, più intensità, più profondità? Forse, con più saggezza?
Qualche, settimana fa, leggevo, su un settimanale, un intervento di Giuliano Ferrara in difesa della vita e, più recentemente, dell’attività che il Parlamento italiano s’accinge ad affrontare, dopo i poco edificanti scontri istituzionali, per mettere d’accordo gli italiani sul problema del cosiddetto “testamento biologico”. Quindi, al momento in cui ho letto l’invito del Rotary, per me l’abbinamento è stato istintivo ed istantaneo, ricordando quali e quante battaglie Ferrara stia conducendo su tale argomento, battaglie che trovano la mia piena approvazione e solidarietà. Però, devo confessarlo, sono andato in crisi. Sono crollato di fronte ad un problema che effettivamente stimo essere enorme: lasciare a terzi la decisione della vita morente (vita vegetativa)di un cittadino.
Riflettendo, con quella capacità che oggi mi riconosco,sul mio stato di crisi, ho potuto dedurre che certamente un complesso di colpa, che mi porto dentro e mi rode, sia pure allo stato latente, da diversi anni, potrebbe esserne la causa. Sicuramente, la considerazione e lo sprezzo della vita che si hanno in età giovanissima, cioè in una stagione in cui tutto ci sembra permesso e nulla vietato, che mi portavano a considerare questo argomento in maniera diversa ed opposta rispetto ad oggi, hanno lasciato nel mio subconscio uno strascico che aleggia ed affiora di tanto in tanto….
Tornando alle mie elucubrazioni mentali intorno all’ argomento principe, sono venuto alla conclusione, innanzitutto, che la “vita morente” e la “vita nascente” sono da mettere sullo stesso piano, giuridico, morale e teologico. Non si può accettare una legge in cui ciascuno di noi è chiamato a stabilire come desideri morire, e quando lo desideri, nel caso venga a mancare coscienza o capacità cognitiva o impossibilità a trasmettere un pensiero compiuto. Mi riferisco al testamento biologico o “dichiarazione anticipata di fine vita”. Chiunque può capire che è una finzione, una forzatura per la quadratura del cerchio!…
Come si fa, una volta abbattuto il tabù o il mistero della vita umana, una volta consegnata la decisione sulla vita alla volontà soggettiva, all’arbitrio di ciascuno protetto dalla norma valida per tutti, come si fa poi a porre condizioni ed a stabilire limiti? Il dubbio e la paura mi assalgono: Il nulla, come ideologia, non sopporta limiti. Il nulla non ha confini.
L’uomo è un animale libero. Può rifiutare le cure. Può fare quel che vuole, come ha sempre fatto, determinando le condizioni della propria vita ed anche quelle della propria morte. Ma stabilire questo potere come un diritto, farne una norma universale, vuol dire fare cultura nichilista, vuol dire non già trasgredire il tabù della vita, il suo mistero, ma abbatterlo per scelta ideologica. Lo abbiamo già fatto con l’aborto. Che è un atto di distruzione della creatura umana del quale abbiamo stabilito non solo la legalità (questione discutibile almeno da un punto di vista di “civiltà”, di etica e di morale cristiana), ma anche la legittimità moralmente indifferente. Ora, dopo la vita nascente, lo faremo per la vita morente. E dopo il testamento, passato quel principio, seguirà la sequenza dell’eutanasia e del suicidio assistito.
Penso che, ormai, non sappiamo più come morire. Forse perché non sappiamo più molto bene come vivere. Quindi, ci assale un’assurda paura di morire, che si accompagna, anzi, è la conseguenza della paura di perdere la propria libera disponibilità di se stessi. Ed oscilliamo tra due retoriche vitaliste di opposta valenza e la confondiamo l’una con l’altra. “Ha combattuto fino alla fine” è il complimento alla volontà di vita determinata e consapevole. “E’ morto senza soffrire, istantaneamente, come desiderava” è il complimento rivolto alla persona che vuole scomparire senza nemmeno saperlo.
Un tempo, quando il mondo era diverso, meno “colto”, meno libero, meno complicato, la persona che giungeva al declino provava, si, l’antica ed eterna paura di morire, ma sapeva affidarsi, si consegnava, in modo esemplare e senza cerimoniale, alla cura altrui, la cura della medicina e quella dell’amore familiare o degli amici. A decidere dell’ultimo istante era la discrezione e, perché no, anche l’amore. Nel bene e nel male. Morire non era l’effetto di una norma, era l’avvenimento finale, naturale della vita; del misterioso corso della vita faceva parte come una necessità, un fatto ineluttabile ed ineludibile e, per la gente di fede, come una speranza. Non si può morire “per legge”.
E mi piace chiudere questa riflessione con alcuni versi di un poeta a me molto caro:
…………….Sul punto di varcare
In un attimo il tempo,
quando pur la memoria
di noi s’involerà,
lasciaci, o Morte, dire al mondo addio,
concedici ancora un indugio.
L’immane passo non sia precipitoso.
Al pensier della morte repentina
Il sangue mi si gela.
Morte non mi ghermire
Ma da lontano annunciati
E da amica mi prendi
Come l’estrema delle mie abitudini.
( Da “Alla morte” di Vincenzo Cardarelli)
Brindisi, 16 aprile 2009
fgiordano 17 aprile 2009
Caro Francesco, è proprio deprimente questa battaglia sul “diritto alla morte”. Verrebbe da chiudere subito il discorso con lazzi e sberleffi. Sono un cristiano e penso che la vita ce l’abbia data qualcuno molto più in alto di noi e che come non avevamo un diritto a nascere non abbiamo un diritto a morire.
Ci sono i casi particolari, che vanno seguiti con sensibilità e amore e non a colpi di legge e carte bollate. Non stanno meglio i malati gravi, quelli che soffrono in genere da quando con estrema levità si parla, si chiacchiera, di testamenti biologici, di diritto alla morte, ecc. E dire che tanti sono disposti a dare una mano, a confortare, a rendere più umana, più accettabile la morte. Senza badare a sacrifici, ma lavorando con impegno e dedizione.
Che vuoi che ti dica Francesco. E’ uno dei tanti argomenti per i quali mi sembra che la società stia facento il passo del gambero.