Carissime amiche ed amici di Eldy,
ciò di cui oggi tenterò di occuparmi è intimamente connesso con la celebrazione fatta, anche da queste pagine, nella giornata del 25 aprile: la Resistenza. La mia non sarà, però, una celebrazione postuma, bensì una rivisitazione critica per coglierne, quanto più possibile, quegli aspetti che hanno la presunzione di avvicinarsi alla realtà dell’avvenimento e degli effetti prodotti dall’avvenimento stesso, necessari almeno per fare chiarezza su quanto, in questi giorni, è stato detto e scritto, spesso in contraddizione, da tutte le forze politiche del Paese ed anche sul blog di questa rubrica. Quindi, premesso che la storia va costruita sulle verità, tenterò, molto umilmente, di dare il mio modesto contributo per cercare, insieme con voi, di cominciare a parlarne in termini “storici”, facendo in modo di guardare l’avvenimento come appartenente al passato e come tale osservarlo e discuterne senza patemi, senza irrigidimenti, senza emozioni. Questa la ragione per cui me ne occupo con un po’ di distanza dalla data di ricorrenza.
Vi prego, però, di non cercare nelle mie frasi “posizioni” partitiche e/o ideologiche perché non ci sono, almeno intenzionalmente. Come sempre, del resto; anche se a volte posso sembrarvi collocato a destra, a volte a sinistra, altre volte al centro dello schieramento politico italiano. E questo, non perché io abbia paura di dire cosa penso, ma soltanto perché sono abituato a dare al mio lavoro un connotato di astrazione dall’appartenenza ideologica, di oggettività, per poter stabilire una verità possibile o probabile. Forte anche del fatto che, a quei tempi, ero appena nato, così come la stragrande maggioranza di Voi che, addirittura, non eravate ancora nati.
“”La Resistenza italiana è stata un modesto movimento, come apporto effettivo e come somma di sacrifici, se confrontata alle grandiose e tragiche vicende della seconda guerra mondiale. Eppure la sua importanza sul piano storico è certamente notevole, nonostante la sua disfatta. [….]. Una cosa però è certa, ed è che, come per tutte le esperienze fallite, […] anche per la Resistenza importa, assai più che l’apologia delle sue glorie, la critica dei suoi errori e dei suoi difetti. Perché sappiamo con certezza che, come le altre, anche questa esperienza fallita, ha un imprevedibile avvenire.”” (Vittorio Foà, La crisi della Resistenza prima della liberazione. “Il Ponte”, nn.11,12, novembre-dicembre 1947).
La Resistenza è stata un elemento rilevante nella vita dell’Italia repubblicana. Ad essa ha fatto riferimento non solo la cultura dei partiti politici, ma anche una parte consistente della letteratura, delle arti e del cinema. Tuttavia, nell’arco del quasi settantennio postbellico, il rapporto tra Resistenza e vita nazionale ha conosciuto varie fasi nelle quali esso ha assunto significati e caratteristiche diversi, in vario modo collegati agli sviluppi del sistema politico e dei rapporti fra partiti che alla Resistenza dichiaravano di richiamarsi. La stessa storiografia ne è risultata in certa misura condizionata, contribuendo anch’essa a creare immagini della Resistenza che, pur con tutti i loro limiti interpretativi, hanno costituito risposte a domande reali provenienti da settori diversi della società italiana.
In una prima fase, memorialistica e pubblicistica, ebbero soprattutto carattere rievocativo e ricostruttivo: la Resistenza emergeva come punto d’arrivo della lotta antifascista ed entrambe come legittimazione etico-politica dei nuovi personaggi politici e dei partiti in cui erano organizzati. I più conseguenti fra i protagonisti – e lo stesso Ferruccio Parri, con il suo breve governo, ne fu simbolo eloquente – coglievano, però, quanto fosse problematico il nesso fra aspirazioni maturate nel corso della lotta e nuove condizioni della vita sociale e politica, soprattutto per l’impatto con l’organizzazione dei poteri sociali ed istituzionali che tendevano a perpetuarsi.
L’unità formale, di vertice e di partito, che della Resistenza era sopravvissuta, per la proiezione nazionale della suddivisione del mondo in blocchi, si incrinò definitivamente nella primavera del 1947. Così, anche l’approvazione e l’entrata in vigore della Costituzione, che peraltro non era da tutti considerata di per sé una conquista, aprivano una fase nella quale gli esponenti di ciascun partito (compresi i neofascisti) tendevano a dare della Resistenza una propria lettura, giustificatrice delle scelte politiche successive. Nel 1955 si giunse a prospettarne un’interpretazione governativa nazionalpatriottica, riassunta nella formula “secondo Risorgimento”, con il compito di esorcizzare una lettura che ne evocasse elementi rivoluzionari, democratici o di classe che fossero. Tuttavia, il fatto stesso che nella contesa politica le parti si richiamassero, sia pure strumentalmente, all’eredità resistenziale ed antifascista, avviò, al livello di massa, un’interiorizzazione della Resistenza e della Costituzione, quasi costitutiva di un particolare “epos” nazionale.
Dopo la sconfitta, nel luglio 1960, del tentativo di inserire il neofascista MSI nella maggioranza, negli anni della “distensione” internazionale, fra le forze di maggioranza e di opposizione, si stabilì una sorta di nuovo patto, teso all’applicazione della Costituzione. Ciò alimentava una nuova fase, nella quale quella che altri chiamavano “repubblica moderata”, era definita, in consonanza con una certa “storiografia di partito”, come “Repubblica nata dalla Resistenza” e approdo della “rivoluzione italiana”, il cui compimento sarebbe stato l’attuazione della Costituzione ad opera dei partiti antifascisti riuniti in un “arco costituzionale”. Quest’uso pubblico della Resistenza, negli anni ’70, veniva sottoposto alla critica politica dei nuovi movimenti di sinistra ed a quella, ben più pertinente, della storiografia dell’Italia contemporanea, soprattutto quella promossa dall’Istituto Nazionale per la storia del movimento di liberazione. Questo orientava la ricerca intorno alle contraddizioni politiche e sociali presenti nel fronte resistenziale ed all’analisi di lungo periodo delle ragioni della rottura o meno, nel passaggio tra fascismo e postfascismo, della continuità dello Stato e del blocco sociale che lo sosteneva. Tuttavia, la forza del “mito della Resistenza” fu misurata soprattutto negli anni delle stragi e del terrorismo quando, trovando in Sandro Pertini una sorta di personificazione, costituì un legame ideologico forte per la difesa della Repubblica e della democrazia,
Quella fu, però, anche l’ultima stagione del rilievo politico della Resistenza, perché nella fase successiva la fine del “paradigma antifascista” divenne elemento di giustificazione di nuove ipotesi politiche.
Dal punto di vista storiografico, nella fase più recente è emersa la sottolineatura che nella Resistenza, intrecciate alle motivazioni per una guerra patriottica (di liberazione nazionale antinazista) e per una guerra di classe (rivoluzionaria) convivevano motivazioni per una guerra civile (antifascista) in prosecuzione della lotta iniziata nel primo dopoguerra. A ciò si sono accompagnate polemiche storiografiche e politiche perché finora la definizione di “guerra civile” era stata propria dei neofascisti, che con essa intendevano porsi sullo stesso piano etico-politico dei resistenti. Tuttavia, in tal modo si aprono anche nuove prospettive per una migliore comprensione dei caratteri della lotta politica nell’Italia Repubblicana e ciò acquista oggi un rilievo del tutto particolare. Infatti, dopo la caduta dei regimi comunisti, in Europa emergono nuovi movimenti nazisti e razzisti, antisemiti e xenofobi, a indicare come uguaglianza e democrazia siano i veri bersagli dell’estrema destra. Nello stesso tempo, la crisi del sistema politico dell’ Italia repubblicana pone l’interrogativo se e quanto il legame fra la Resistenza del mito e la politica dei partiti corrisponda al legame reale fra la Resistenza della storia e la vita sociale e politica dell’Italia contemporanea.
Per i motivi suesposti, invito gli amici che mi leggono ad una profonda riflessione: non possiamo guardare la Resistenza come un fenomeno statico, bensì come fenomeno patriottico che, nel tempo, ha dato anche ottimi prodotti etico-politici nel governo del Paese. Su questo è necessario riflettere per auspicare, alla fine, che la convergenza di tutti gli italiani avvenga sugli effetti recenti e futuri della Resistenza. Questo, a mio avviso, dovrà necessariamente portare alla non condanna di coloro che, in buona fede, hanno combattuto, a volte cadendo, dalla parte sbagliata, così come sostenuto da più parti, da ultimo dal Capo dello Stato col suo discorso del 25 aprile.
fgiordano 6aprile2009
Caro Francesco, è stato uno sforzo riuscito di esame disinteressato ed equilibrato. Bravo. C’è da ringraziarti.
Esprimo un mio pensiero,sono nipote di un partigiano e in casa mia la Resistenza è stata sempre un argomento molto dibattuto(mio padre era stato prigioniero degli inglesi).Spesso ho pensato al dopo liberazione ,a quel periodo oscuro in cui troppe cose sono state tollerate:per me questo è il fardello che ancora stiamo portando.Non abbiamo mai chiarito quegli episodi orribili le vittime ei loro famigliari sono stati cancellati.Un paese democratico non deve aver paura di chiarire alcuni aspetti tragici della sua storia.
La resistenza fu guerra civile? Io liquiderei la questione con due tre righe: una parte degli Italiani, amanti della libertà, combatterono a fianco delle forze straniere, che si erano alleate contro il nazifascismo, liberando la nazione dal gioco a cui aveva aderito sognando un’eldorado di schiavi. (Pòpof)