Al termine della seconda guerra mondiale il cinema italiano si trova ad affrontare una situazione per molti versi inedita: la domanda di spettacolo cinematografica, che non si è interrotta negli anni del conflitto, diventa altissima fin dai primi mesi della Ricostruzione, tanto che le sale cinematografiche sono tra i primi edifici ad essere ristrutturati, e ad esse si aggiungono innumerevoli nuovi spazi di proiezione.
Nel giro di poche stagioni ogni comune di rispettabili dimensioni ha la sua sala cinematografica, mentre in tutte le città (soprattutto nelle periferie popolose) si costruiscono luoghi di proiezione moderni, spaziosi, pensati per un pubblico numeroso.
A questa diffusione capillare dello spettacolo cinematografico corrisponde un ritorno al predominio hollywoodiano sui nostri schermi, dopo gli anni del blocco delle importazioni legate ai fatti bellici e alla politica autarchica che comprende anche il cinema; e corrisponde una precarietà dell’apparato produttivo nostrano che non sarà mai superata da una programmazione industriale del cinema italiano.
Tra domanda e offerta si crea subito un circuito virtuoso, con il numero di biglietti staccati che cresce anno dopo anno fino a raggiungere nel 1954 la cifra considerevole di 700 milioni d’ingressi, e il primo problema che si pone per produttori e registi interessati a un cinema popolare è come individuare un prodotto che possa essere competitivo con le produzioni americane, che sfoggiano budget superiori, fascino spettacolare e attori di fama mondiale, senza contare il fascino di provenire dal paese che ha vinto la guerra.
Il neorealismo cerca di rispondere a queste sollecitazioni sul piano politico, raccontando in vario modo il paese che ha appena vissuto l’esperienza di una guerra disastrosa; nelle sue punte più politicizzate, il cinema neorealista è fin da subito fenomeno ideologico ed estetico, occasione di dibattito e di schieramento, chiamata a raccolta per una generazione cinematografica cresciuta all’ombra del protezionismo fascista, ma che ha più volte manifestato con la scrittura critica una certa insofferenza per la produzione cinematografica del ventennio; tracce di neorealismo, considerando le strategie produttive in esso indicate, sono comunque riscontrabili in molta produzione corrente dell’immediato dopoguerra, viste le condizioni precarie con le quali si girano i films.
Il neorealismo nato appena dopo la seconda guerra mondiale vuole rappresentare la quotidianità, quello che succede ogni giorno, quasi trasformando la realtà in un documentario, “servendosi sovente di individui presi dalla strada in luogo di attori professionisti”.
A causa dei limitati mezzi a disposizione si deve girare nelle strade, nei luoghi dove effettivamente sono avvenite i fatti che si raccontano; con la conseguenza che da codeste apparenti limitazioni scaturisce la realtà del mondo di allora in aperto contrasto con le idee di solennità e maestosità del regime, denunziando anzi la crudeltà o l’indifferenza dell’autorità costituita.
Con il termine di “nuovo” realismo si tende a rimarcare la necessità di affermare il carattere inedito della corrente. Per distinguerla evidentemente da precedenti esperienze realistiche di talune pellicole prodotte nel periodo del muto – “Sperduti nel buio” (1914) di Nino Martoglio e “Assunta Spina” (1915) di Gustavo Serena, anche se altre alcune opere di Blasetti (“Terra madre” – “1860“, del 1931 e del 1934) tendevano a differenziarsi dai canoni imposti e pretesi dal regime.
Ma i veri segnali del nuovo si ebbero con la demolizione della cappa di “decoro e di perbenismo” ancora con Blasetti  “Quattro passi fra le nuvole” (1942) e Vittorio De Sica “I bambini ci guardano” (1943), ma contribuì più di tutti alla nuova aria Luchino Visconti  che con “Ossessione” (1943) finalmente porta sullo schermo le vere condizioni di assoluta povertà della gente in una Italia che versava nella più assoluta povertà e disperazione.
Ossessione” incontrò non pochi ostacoli dalla censura, fu uno degli esempi più rigorosi e validi di cinema della realtà, mostrò uno spaccato critico di certa provincia italiana agli antipodi di quella contenuta nella cinematografia fascista tutta intenda a mascherare la realtà italiana dietro la retorica.
Il neorealismo può dirsi che nacque con “Roma città aperta” girato da Robero Rossellini  nel 1944-45 dove le immagini spoglie di una realtà colta all’improvviso nella Roma occupata dai nazisti vengono trasformati in elementi di una dolorosa tragedia.
Con “Sciuscià” 1946 – “Ladri di biciclette” – 1948 – “Miracolo a Milano” 1950 – “Umberto D” 1951 si ritrova il gusto di una realtà popolare italiana colta quasi sempre con spontaneità e freschezza ma con partecipazione più sentimentale che morale e politica.
Nei film neorealisti, per cui si teorizza la coralità e lo scegliere gli attori «per la strada, tra la gente comune», l’attenzione per i protagonisti è tutt’altro che sopita: Roberto Rossellini in Roma città aperta (1945), il film che, come si è detto innanzi, apre la stagione neorealista, propone in chiave tragica due attori popolarissimi nel teatro brillante quali Aldo Fabrizi e Anna Magnani.


Si tratta del film delle difficoltà superate. Il teatro di posa è stato improvvisato in un vecchio padiglione che un tempo serviva per la corsa dei cani. Mancando l’impianto per la colonna sonora le voci vengono registrate a parte.
Ma il neorealismo in senso pieno è solo una parte del cinema italiano del secondo dopoguerra, perché registi e produttori cercano anche altre vie che risultano immediatamente più redditizie: pescano tra i comici che calcano i teatri dove si rappresentano il varietà e l’avanspettacolo, attingono alla tradizione musicale classica e leggera, propongono adattamenti dei classici europei dell’avventura.
I protagonisti italiani dell’anteguerra sono ormai inadeguati ai gusti del pubblico popolare, incapaci di competere con il solido star-system hollywoodiano, programmato industrialmente e sostenuto da una capillare presenza nei rotocalchi dedicati allo spettacolo, che rappresentano nel periodo un fenomeno di ampie dimensioni.
Le dive dei telefoni bianchi, quando non si ritirano (come Chiaretta Gelli) o non tentano l’avventura americana (come Alida Valli), cercano di riciclarsi accettando ruoli molto diversi da quelli che hanno procurato il loro successo: Carla Del Poggio e Adriana Benetti sono due prostitute rispettivamente in Senza pietà (Alberto Lattuada, 1948) e in Tombolo,paradiso nero (Giorgio Ferroni, 1949), mentre ruoli minori allungano le filmografie di Maria Denis, Assia Noris, Clara Calamai e molte altre. Anche per i divi più amati dal pubblico il momento è diffìcile: il Gino Cervi indomabile spadaccino in Don Cesare di Bazan (Riccardo Freda, 1942) non può reggere il confronto con la prestanza fisica di Errol Flynn o di Tyrone Power, e in generale le avventure all’italiana non hanno il ritmo incalzante e la capacità fascinatoria di quanto arriva da Hollywood. Produttori e registi propongono cosi uno star-system nostrano più aggiornato setacciando i concorsi di bellezza e il teatro, ma anche i fotoromanzi (all’epoca molto letti), il mondo della canzone, persino la cronaca.
Ma questa è un’altra storia.

flavio.46       28/ 05/ 2009

Un Commento a “NEOREALISMO (scritto da flavio.46, inserito nel blog da paolacon)”

  1. lorenzo.RM scrive:

    Caro Flavio, ti ho letto con grande interesse. La mia è la terra di Verga e dei Malavoglia. Quindi sono argomenti che fanno parte del mio vissuto e della mia natura.

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