L’amicizia-collaborazione tra i due artisti è stata molto stretta per un corto periodo, ma anche molto sofferta e drammatica, sebbene si stimassero e si ammirassero vicendevolmente. Tanti interrogativi sono ancora aperti a proposito di quella convivenza.
Questo articolo di flavio46 affronta proprio l’aspetto umano, di quel periodo travagliato, che i due pittori trascorsero insieme ad Arles tra il 1888 e il 1889.
«Un giorno,» ci racconta Gauguin nelle memorie autobiografiche “Avant et Après” «vinto dagli slanci sinceri d’amicizia di Vincent, mi misi in viaggio. Giunsi ad Arles sul finir della notte e attesi il mattino in un caffé notturno. Il proprietario mi guardò e gridò: “Siete voi l’amico, vi riconosco”.
Un autoritratto che avevo mandato a Vincent è sufficiente per spiegare l’esclamazione del padrone. Facendogli vedere l’autoritratto, Vincent gli aveva spiegato che si trattava di un amico che sarebbe venuto prossimamente. Né presto né tardi andai a svegliare Vincent. La giornata fu consacrata alla mia istallazione, a molte chiacchiere, alle passeggiate per permettermi d’ammirare le bellezze di Arles e le arlesiane, che tra parentesi non hanno suscitato il mio entusiasmo. All’indomani ci mettemmo al lavoro(…).Tuttavia mi ci vollero alcune settimane prima di cogliere esattamente il sapore aspro di Arles e dei suoi dintorni. Ciononostante lavoravamo sodo, soprattutto Vincent. Tra i due, egli ed io, uno vulcanico ma l’altro anche ribollente, ma al di dentro, c’era anche un preparativo di battaglia.
Anzitutto trovai in ogni cosa un disordine che mi colpi. La scatola dei colori era appena sufficiente per contenere tutti quei tubetti calcati dentro, mai tappati, ma malgrado questo disordine, questo guazzabuglio, sulla tela tutto era nitido; cosi anche nelle sue parole. Daudet, De Goncourt, la Bibbia bruciavano nel cervello dell’olandese (…).
Nonostante i miei sforzi per riordinare questo cervello disordinato e trovare una ragione logica nelle sue opinioni critiche, non potei spiegarmi tutto ciò che v’era di contraddittorio fra la sua pittura e le sue opinioni. Quanto tempo rimanemmo insieme? Non saprei dirlo avendolo dimenticato del tutto. Malgrado la rapidità con la quale la catastrofe arrivò; malgrado la febbre di lavoro che mi aveva preso, tutto quel tempo mi parve un secolo. Senza che il prossimo ne dubitasse, due uomini fecero là un lavoro colossale utile a entrambi. Forse utile agli altri? Certe cose danno i loro frutti ».
Nelle prime settimane di vita in comune Gauguin impera nella casa e impone le sue opinioni artistiche, cui l’olandese, felice d’aver iniziato il suo “Studio del Mezzogiorno”, si adatta volentieri. Ma per Vincent la pittura è una presa di contatto diretta con l’esterno, una comunicazione con un fatto reale, osservato, colto si può dire nel suo attimo di vita. Per Gauguin invece è un valore pensato, rielaborato, visto nello studio, o addirittura inventato desumendolo da documenti e da annotazioni magari anche disparati. Vincent si lascia prendere al gioco — per lui quasi una trappola — della teorizzazione sintetica.
In dicembre i due pittori visitano il Museo di Montpellier, e davanti ai quadri Gauguin, come sempre, pontifica con una crudità diretta e sfacciata. Vincent espone le proprie opinioni, e ne nasce una discussione accanita, al termine della quale nessuno dei due si sente contento.
Gauguin scrive: «Ad Arles sono del tutto spaesato, talmente trovo tutto piccolo, meschino, il paesaggio e le persone. Vincent ed io siamo ben poco d’accordo in generale, soprattutto in pittura. Egli ammira Daumier, Daubigny, Ziem e il grande Rousseau, tutta gente che io non posso sopportare. E per contro detesta Ingres, Raffaello, Degas, tutta gente che io ammiro; io rispondo “brigadiere, avete ragione” tanto perché mi lasci in pace. Ama molto i miei quadri, ma quando li faccio, trova sempre che ho torto per questo o per quello. Egli è romantico, ed io sono piuttosto portato ad uno stato primitivo. Dal punto di vista del colore vede i casi della materia, come in Monticelli, e io detesto l’intruglio tecnico… ».
Non è tutto: anche il tenore di vita che Gauguin conduce è per Van Gogh insostenibile. Già al limite delle proprie forze per un lavoro accanito, per un anno di lotte contro il vento e il sole, con i problemi quotidiani, il cibo, la solitudine, l’allestimento della casa, Vincent dovrebbe ora riposarsi. Gauguin per contro, più robusto, un vero colosso, sopporta bene l’alcool, le nottate in bianco, le visite a “quelle signore” nel cosiddetto “quartiere caldo” di Arles. In parole povere egli ama gli eccessi, ma il suo compagno non è assuefatto né preparato ad una vita del genere. Né è disposto, a mano a mano che i giorni passano, alle critiche aperte, alla negazione formale delle sue qualità.
Ora Gauguin sembra volergli scalzare, con le sue teorie, tutta questa sicurezza, e ripropone a Vincent, con la sua presenza, le critiche, le diatribe e le polemiche di Parigi, che l’olandese ha fuggito. Vincent si oppone alla teoria, alla presenza della politica, della filosofia e dei preconcetti nella pittura.
Tra i due pittori quindi nessuna intesa concettuale. Cosicché la differenza di carattere e di vita scava tra i due un abisso. Le forze di Vincent non possono sostenere l’urto, e giorno dopo giorno si delinea il fallimento del progettato Atelier du Midi. La mattina del 23 dicembre scrive al fratello che Gauguin ne ha abbastanza di Arles, delle arlesiane, di lui. Anche Gauguin da una relazione dettagliata di quelle giornate, ma suona come una testimonianza poco attendibile e, conoscendone il carattere, piuttosto fanfarona. Disse più tardi, infatti, contro ogni verità: «Egli sapeva creare solo delle dolci armonie incomplete e monotone; lo squillo di una tromba gli mancava. Mi assunsi io il compito di illuminarlo cosa che mi fu facile, perché trovai un terreno ricco e fertile. Da allora il mio Van Gogh fece progressi stupefacenti. In me ha trovato insegnamento fecondo».
Ma veniamo alla conclusione tragica delle giornate di Arles, e leggiamo Gauguin: « Nell’ultimo tempo del mio soggiorno Vincent fu per un poco alquanto impulsivo e chiassone, finendo poi con il chiudersi nel mutismo. Qualche sera mi accadde di sorprenderlo mentre, alzatosi, s’avvicinava al mio letto. Non mi so spiegare come potessi svegliarmi proprio in quegli istanti. Comunque bastava che gli dicessi: “Che avete, Vincent?”, perché se ne tornasse a letto senza dir parola, ricadendo in un sonno profondo. M’ero accinto in quel tempo a fargli il ritratto mentre intento a dipingere la natura morta che amava tanto, quella dei Girasoli. Come l’ebbe finito, sbottò a dire: ‘Sono proprio io, ma diventato pazzo!’. La stessa sera ce ne andammo al caffé.
Egli ordinò un leggero assenzio. Ad un certo momento d’improvviso mi tirò in testa bicchiere e contenuto. Scansato il colpo, lo presi e lo portai fuori dal caffé traversammo place Hugo e qualche minuto dopo Vincent era a letto e s’addormentava subito. Dormì ininterrottamente fino al mattino. Appena svegliato si rivolse a me con calma: ‘Mio caro Gauguin, mi pare di ricordarmi di avervi offeso, iersera’. E io: “Volentieri vi perdono, ma penso che la storia di ieri potrebbe ripetersi e, se venissi colpito, potrei anche non sapermi dominare, e strangolarvi. Permettete dunque che scriva a vostro fratello dicendogli che intendo andarmene”.
Dio mio che giornata! La sera, dopo aver mangiato in qualche modo, sentii il bisogno di uscire da solo per andare a prendere un po’ d’aria lungo il sentiero dei larici in fiore. Avevo quasi attraversato place Hugo quando avvertii alle mie spalle quei brevi passi rapidi, sconvolti che conoscevo bene. Mi voltai proprio nell’attimo in cui Vincent si precipitava su di me con un rasoio aperto in mano. Ben forte dev’essere stato in quel momento il mio sguardo, se Vincent si arrestò e, subito dopo, a testa bassa, si diresse correndo verso casa.
Che io sia stato debole allora? Avrei dovuto disarmarlo e persuaderlo a calmarsi ? Più volte ho interrogato la mia coscienza ma non ho mai trovato motivo di rimproverarmi. Mi si giudichi come si vuole. Fatto sta che qualche minuto dopo già mi trovavo in un buon albergo di Arles dove, dopo aver chiesto l’ora, presi una camera e mi misi a letto. Agitato com’ero non mi riusci di addormentarmi prima delle tre del mattino, e mi svegliai tardi, verso le sette e mezza. Raggiunta la piazza vi trovai un assembramento di gente. Sotto la nostra casa c’erano i gendarmi e un piccolo signore con la bombetta, il commissario di polizia. Le cose erano andate così: appena rientrato Van Gogh si era immediatamente tagliato netto un orecchio, raso alla testa.
Penso che abbia messo un bel pò per arrestare l’emorragia, poiché il giorno dopo vennero trovate sul pavimento dei due locali tante salviette inzuppate. Il sangue si era sparso per le due stanze e sulla scaletta che conduceva alla nostra camera da letto. Comunque, appena in grado di uscire si diresse con un basco ben calato sulla testa in uno di quei posti dove c’è sempre una ragazza sottomano, e consegnò alla tenutaria il suo orecchio ben pulito e messo in un involto. “Tenete, disse, per mio ricordo”, e via di corsa; rientrato si buttò sul letto e si addormentò ».
Anche il quotidiano locale, “Le Forum républicain”, diede annuncio dell’avvenimento in un trafiletto di cronaca locale, che pose cosi la vicenda sulla bocca di tutti: «Domenica scorsa il nominato Vincent Vaugogh (sic), pittore, originario d’Olanda, s’è presentato alla casa di tolleranza n. 1, ha chiesto di una certa Rachele e le ha consegnato… il suo orecchio dicendole: “Conservate questo oggetto preziosamente”. Poi è sparito. Informata di questo gesto che poteva essere solo quello di un povero alienato, la polizia s’è recata l’indomani mattina da questo individuo che ha trovato a letto, e che non dava quasi più segni di vita. Lo sventurato è stato ricoverato d’urgenza all’ospedale».
Una precisazione si impone: Vincent non si tagliò l’orecchia, ma solo il lobo. Non ebbe una grave perdita di sangue, e non sporcò molte salviette.
Del tormentato periodo trascorso con Gauguin gli restano soprattutto due quadri raffiguranti ciascuno una sedia: quella di Vincent, solitaria, con una pipa e del tabacco; quella più imponente di Gauguin, con una candela accesa e dei libri. Sono, anche queste due tele, dei ritratti che presentano il dramma, e che con una carica emotiva e psicologica preannunciano la solitudine di Vincent.
Dimesso dall’ospedale il 7 gennaio 1889, Vincent torna ad interrogare se stesso. Si dipinge con le bende attorno alla testa, ma con un’aria calma, tranquilla, quasi distaccata. Scrive a Theo per rassicurarlo, e scrive anche una lettera affettuosa a Gauguin, senza un accenno al passato, senza un rimprovero. Solo alla fine domanda: «Ditemi, il viaggio di mio fratello Theo era proprio necessario?».
Riprende la vita usuale e va a trovare spesso il postino Roulin, il solo amico che gli sia rimasto ad Arles.
Fra gennaio e marzo ritrae più volte sia lui che la moglie, Agostina. Non c’è più nulla da temere. «Ho una tale voglia di lavorare – scrive al fratello – che ne sono stupito».
Nella casa vuota, rimasta aperta alla discrezione della polizia e della pioggia, l’umidità ha sciupato un buon numero di opere durante la sua assenza.
Qui egli si sente davvero infelice, svuotato. Scrive a Theo: «Non soltanto l’Atelier finito, ma anche gli studi che avrebbero potuto esserne il ricordo sono rovinati; e cosi il mio slancio per fondare qualcosa di semplicissimo ma di durevole…».
Il 9 febbraio, allo stremo dello scoramento, stanco per le notti insonni, va a farsi ricoverare ancora.
Rey lo cura e lo rimanda ben presto a casa. L’amico Roulin ha ottenuto un avanzamento, e lascia Arles per Marsiglia, Vincent è ora del tutto solo.
I bambini, per la strada, gli tirano a volte dei sassi quando passa, o si aggrappano alle inferriate della sua casa gridando: «Al matto, al matto! ». Anche i giovanottelli vi si mettono. Uno di loro confessò più tardi: «Ero allora fra i gagà del momento. Eravamo una banda di giovanotti tra i sedici e i vent’anni, e come degli stupidi ci divertivamo a gridare ingiurie a quell’uomo che passava, solitario e silenzioso, con una camicia grossolana indosso e uno di quei cappelli di paglia a buon mercato che si potevano acquistare dovunque. Ma lui li ornava con un nastro azzurro o giallo. Mi ricordo, e con quanta vergogna ora, di avergli tirato dei torsoli di cavolo ».
Qualche volta rispondeva con male parole. Allora alcuni abitanti del quartiere – v’è sempre qualche vecchia zitella che vuol compiere un gesto sociale – scrissero una petizione in cui si chiedeva di allontanare l’artista; anzi si esigeva il suo internamento in manicomio. La petizione venne inviata al sindaco, che diede seguito alla cosa senza nemmeno consultare il dottor Rey o prendere informazioni.
Vincent ne dà notizia al fratello: «Ti scrivo in pieno possesso delle mie facoltà e non da folle, ma da fratello quale mi conosci. Ecco la verità. Un certo numero di persone di qui ha presentato al sindaco (credo che si chiami Tardieu) una petizione (c’erano più di ottanta firme) che mi descrive come indegno di vivere in libertà, o qualcosa del genere. Il commissario di polizia o il commissario generale ha perciò dato ordine di internarmi di nuovo. Eccomi cosi da lunghi giorni tenuto sotto chiave e catenaccio, sorvegliato a vista nella cella d’isolamento, senza prove certe o possibili della mia colpevolezza».
Flavio46 10 giugno 2009
grazie! Sto scrivendo uno spettacolo su Van Gogh e il tuo scritto mi è servito molto, oltre che averlo apprezzato.
Flavio, i due amici avevano un rapporto molto conflittuale, ma che personaggi! Che meraviglia le due sedie personali! E’ un vero piacere ammirare i vari dipinti, non mi stancherei mai!
Cordialmente
flavio ,dico la verita, nn ci capisco molto di pittura ma il tuo scritto è bellissimo…davvero è talmente bello che ora la pittura mi incuriosisce…grazie flavio
Bello, bello in tutti i sensi. Sono contento di averlo letto e assaporato.