Si corre ad Abu Dhabi. Si corre una gara di “formula uno”. Le eccellenze della produzione automobilistica si contendono il risultato su una pista inventata costruita nel deserto. Le vetture che sfrecciano oltre i 300 km orari, sono consuete per noi occidentali, la diversià è il palcoscenino ricavato tra le dune. Mentre le vedo sfecciare sul nastro d’asfalto, delimitato da strisce color del cielo arabo, intervallato da strisce bianco rosse stile “stars and stripes”, guardo anche la costruzione dell’autodromo, con le sue sagome architettoniche, che fanno prima dimenticare le colline di sabbia del deserto, e poi le ripropongono in vetro e cemento.
Mentre guardo ascolto la babele di commenti giornalistici, che riporta all’antica Babilonia, come se il tempo disciogliendosi dalla sua aggrovigliata linearità, riproponesse fasti sepolti nel profondo storico della mezzaluna fertile. Sono affascinato dalla faraonica costruzione dell’autodromo, è già l’aggettivo testimonia un altro fulgido passato. Mi riportano in terra, facendomi uscire dall’obnubilazione del video, le parole di Alain Prost che, intervistato, all’incirca dice che quanto vediamo è stato possibile realizzarlo grazie alla mancanza di pastoie burocratiche e all’assenza di proteste ecologiste. Ci sorvolo su quest’affermazione, di certo dettata dall’entusiasmo di assistere ad una corsa nel deserto fatta da vetture avveniristiche e non da cammelli guidati da uomini con il turbante. La nostra fantasia metropoccidentaleuropea è pervasa da stereotipi immaginifici condizionanti. Intanto iniziano le partite del nostro campionato di calcio della serie A. Ecco che i primi della classe in mutandoni scendono in campi incorniciati da stadi ovali e anonimamante brutti (visti da vicino anche sporchi). Saranno state le pastoie burocratiche o le intromissioni degli ecologisti a farli tali?Forse una filosofia diversa penso. Magari gli arabi han costruito, e stan costruendo altrove, con una visione diversa dalla nostra. I soldi fanno molto, avere budget di spesa illimitati consente cose altrimenti impossibili. Ma i soldi girano anche nel nostro calcio, nel nostro paese, quinta o settima potenza economica mondiale. Una cosa ritengo sia intascare i guadagni, altra cosa investire i guadagni. Ecco oggi l’mpressione che si ha è di un’Italia fatta di cassa, senza una visione d’insieme lungimirante, che guardi alle infrastrutture reali o relizzabili. Lasciando automobilismo e calcio e restando alle costruzioni fattibili, necessarie e realizzabili, penso al ponte sullo stretto di Messina, a chi allarga la borsa restringendo il pensiero sentendosi pontefice. Un ponte che collegghi due sponde, un’opera in grado di rilanciare l’economia di una realtà, lasciata nel bagno di acqua e sale mediterraneo, come fosse un’alice (e i gatti si leccano i baffi). Rilanciare l’economia di un’isola che tra Messina e Palermo non possiede un aeroporto, dove alberghi, agriturismi e villaggi turistici, quest’anno han trovato clienti più tra coloro che in passato avevan lasciato l’isola per un lavoro in grado di garantire un futuro, che tra gente nuova in cerca di un’oasi, nel deserto della quotidianità annuale. Un’isola che diventa più lontana in quanto le infrattutture viabilistiche sono inadeguate ai tempi, e dove la cecità di amministratori locali, inadeguati all’epoca globale, agiscono nella solitaria concorrenzialità non mettendo in atto quelle sinergie necessarie a fare del turismo una risorsa importante, capace di garantire quell’indipendenza economica che solo il lavoro può dare. Ma il ponte è una palla galleggiante nella fantasia deconcentrata, che pensa al trasporto veloce di merci in grado di coprire i quasi 1500 km tra Palermo e Milano in 20 ore anzichè in 20 ore e mezza: il risparmio di tempo vale l’investimento del denaro necessario alla realizzazione? Tanta fatica per così poco? E non parlo dello scempio del territorio conseguente alla sua realizzazione in quanto lo scempio già in atto difficilmente sarà peggiorabile: le ampie piazze senza alberi dei Peloritani e dell’Aspromonte non si potranno rinverdire dignitosamente se non dopo 30 anni dal momento in cui si inizierà la piantumazione, e se gia ci curiamo così poco del nostro futuro, figurarsi pensare a quello dei nostri nipoti.
Popof 03novembre2009
Commenti abilitati
Popof, bravo, come al solito hai congegnato un articolo gradevole, pulito, suggestivo, da ammirare e proporre. Purtroppo, come spesso ti capita, esso finisce in gloria, come tutti i salmi. La chiusa è quella del ponte. Io, nel merito, farei decidere alla gente del luogo. Per l’Italia dovrebbe essere un’opera emblematica del nostro intelletto. Ma ormai, come in tante cose, la polemica s’è incattivita.