Titina ci regala un interessantissimo scritto di suo padre: Nicola Spallone. Il racconto è stato diviso in due parti, perché lo si possa apprezzare meglio.

Nel seguente scritto, fatti e personaggi sono reali.

IL   PORTALETTERE (Prima parte)

Il fatto che sto per narrare con questo scritto, è frutto di una storia, fra le tante, che il nonno ci raccontava nelle lunghe serate d’inverno, di fronte al focolare, per tenerci buoni.
Scrivo queste cose nel ricordo della mia fanciullezza, mi sono rimaste impresse nella mente e cercherò di ricordarle con questo scritto semplice, povero, senza accampare nessuna pretesa letteraria, destinate a grandi e piccoli lettori.
Il racconto risale a circa 150 anni fa. Correva l’anno 1860, l’anno della disfatta del “ Regno delle due Sicilie”, regno dominato dalla dinastia dei Borboni; l’ultimo re, Francesco 2^ di Borbone, chiamato dai Napoletani  “Franceschiello”, uomo di spirito debole e irresoluto, lasciò mano libera alla moglie, Maria Sofia di Baviera, negli affari di stato e di famiglia.
La cattiva amministrazione del Regno e l’ “Impresa dei Mille” che si concluse con la battaglia sul Volturno, fecero sì che si attuasse l’Unità d’Italia e, sotto il dominio dei Savoia, fu proclamato il Regno d’Italia.
Con questo cambiamento di regime, i popoli delle nostre contrade non accettarono i nuovi conquistatori, anzi li osteggiarono e anche in modo violento.
Il periodo di agitazione era fomentato dagli spodestati Borboni ai quali il popolino era rimasto fedele, dall’affermarsi nel mezzogiorno di una società borghese sempre più dilagante, da alcune innovazioni quali, ad esempio, il servizio militare reso obbligatorio e al quale dovevano sottoporsi i giovani, dall’aggravio delle tasse, ecc. Per tutti questi ed altri motivi, esplose, in forma degenerante, il brigantaggio, caratterizzato da ferocia e crudeltà. Il popolo, specie i giovani, i contadini, non gradirono la sottomissione alla nuova realtà; si diedero alla macchia, costituirono clandestinamente gruppi di affiliati, spietati criminali, uomini decisi a tutto pur di osteggiare il nuovo regime.


“Briganti”, questo è il nome che assunsero, erano comandati dal capo-brigante, il più cattivo, il più spietato fra loro. Commettevano rapimenti con richieste di riscatto, ruberie, assassini, non avevano pietà né per gli uomini, né per le donne di qualsiasi età. Armati fino ai denti di fucili, di doppiette, di armi bianche, facevano irruzione, specie di notte, nei paesi non protetti dalle forze dell’ordine, nei casolari di campagna, rubavano, saccheggiavano tutto quello che capitava loro sottomano. Si ritiravano nei nascondigli detti “covo” e, sentinelle poste su alture circostanti, montavano di guardia notte e giorno e allertavano i compagni nascosti nel covo, dell’eventuale arrivo delle forze dell’ordine. Le sentinelle, se fiutavano il pericolo, sparavano in alto un colpo di schioppo e il nucleo spariva nella folta e impenetrabile boscaglia fino al cessato allarme, per poi riunirsi di nuovo e continuare il loro spietato lavoro. I viandanti che venivano intercettati, venivano spogliati di tutto, privati del mezzo di locomozione quale un cavallo, un mulo, una giumenta e quasi sempre il malcapitato ci rimetteva la pelle.
Questo era il clima nel quale si svolge la vicenda che sto per narrare.
Il mio bisnonno, Gianbattista Spallone, con impegno e serietà, svolgeva il suo lavoro che era quello di recapitare nei paesi vicini, posta, missive, pacchi anche di valore; era un procaccia postale e, secondo i miei calcoli, poteva avere circa venticinque anni. Il suo servizio poteva durare anche alcuni giorni, secondo la lontananza dei Comuni nei quali doveva recapitare  ciò che gli era stato affidato dall’ufficio postale di Riccia.
RICCIA: un paese medievale, dove, nel secolo 1500,  regnò la regina Costanza di Chiaromonte, della quale è conservata la tomba, che ne raccolse le spoglie, nella chiesa appartenente ai feudatari; la chiesa, prospiciente il torrione, unico resto esistente del castello, è antica quanto il castello stesso ed è dedicata al beato Stefano Corumano, un anacoreta del paese che, ai tempi della Chiaromonte, viveva in solitudine assoluta.
Si narra che il beato Stefano vivesse in una grotta naturale scavata dalle intemperie nel corso dei secoli, nel precipizio roccioso su cui sorge il castello. In questo luogo, il santo uomo viveva in preghiera e in compagnia solo di un cane che gli procurava qualche tozzo di pane che riusciva a trovare per le strade di Riccia, infatti  qui, il beato Stefano si festeggia il giorno dopo Natale e, una credenza popolare, vuole che, durante  la prima messa del mattino, al momento dell’elevazione, ci sia nella chiesa lo svolazzare di una farfalla, la comparsa della farfalla è di buon auspicio per l’anno nuovo; io, una volta, ho visto e constatato veramente, nel momento stabilito, lo svolazzare della farfalla.


Fatta questa digressione sul mio amato paese, si continua la narrazione:
in un giorno d’inverno, zì Gianbattista, così chiameremo il bisnonno, ebbe l’incarico di portare  dei plichi postali a Campobasso che dista da Riccia 33 km, oggi si percorrono in brevissimo tempo, ma, a quei tempi, quando c’erano solo strade mulattiere, il viaggio poteva durare quattro o cinque ore e, a seconda dei capricci del tempo, se pioveva, se nevicava, se faceva freddo, poteva durare anche mezza giornata.
Quel giorno d’inverno pioveva a dirotto e al valico delle alture c’era anche nevischio. Zì Gianbattista quella mattina doveva partire per forza, assolutamente, anche se le condizioni del tempo erano proibitive, il suo dovere era improrogabile. Si alzò molto presto, sellò il mulo, caricò ciò che gli era stato affidato e partì per Campobasso.
Il viaggio fu molto duro, per tutto il tragitto, pioggia, neve e freddo gli fecero compagnia. Arrivò a Campobasso verso mezzogiorno, consegnò all’ufficio postale della città ciò che gli era stato affidato a Riccia e, prima di riprendere la strada del ritorno, pensò di recarsi alla taverna, come faceva sempre per rifocillarsi. La taverna, gestita dal taverniere e da uno o due aiutanti, consisteva in una grossa stanza, con un portone enorme che di giorno rimaneva sempre aperto; all’interno una rustica cucina, una rivendita di vino ecc…, insomma tutto ciò che poteva dare ristoro ai viandanti; Zì Gianbattista entrò e qui, come sempre, incontrò altri suoi colleghi.
Quel giorno erano in sei o sette, tutti amici perché si ritrovavano spesso nello stesso posto; erano tutti bagnati fino alle ossa, avevano avuto tutti lo stesso trattamento dal dio Pluvio!!! Prima di mangiare qualcosa, decisero di chiedere al taverniere la fornitura di un braciere di carboni ardenti per scaldarsi e potersi asciugare in qualche modo. Per la fornitura del braciere, come sempre, ognuna pagava la sua quota. Intorno al braciere, gli amici cercavano di asciugarsi alla meglio i vestiti bagnati, raccontandosi cose anche banali.
Zì Gianbattista, guardando verso il portone, più per assicurarsi se cessava la pioggia, dato che dopo un po’ avrebbe dovuto riprendere la strada del ritorno, notò, appoggiato allo stipite del portone, un ragazzetto di quindici- sedici  anni che tremava per il freddo, bagnato come un pulcino, con i vestiti grondanti acqua, guardava smarrito e non osava chiedere il permesso di potersi  scaldare anche lui un po’; non aveva soldi per pagare la sua parte, non aveva soldi per partecipare al costo del fuoco.
Zì Gianbattista, appena si accorse delle condizioni del ragazzo, non esitò un istante, lo chiamò:- Guagliò, vieni, vieni anche tu ad asciugarti vicino al fuoco!- Il ragazzo si schernì e non si mosse. Zì Gianbattista lo invitò di nuovo:- Vieni, vieni a scaldarti!- Il ragazzo, con fare dimesso, disse:- Non posso perché non ho neppure un centesimo per pagare la mia parte.- Dai, vieni, non vergognarti, prendi il mio posto! Replicò Zì Gianbattista e si allontanò dal braciere. Il ragazzo rassicurato, si avvicinò al braciere timidamente e riuscì anche lui a scaldarsi e ad asciugarsi. La cosa finì e zì Gianbattista non pensò più minimamente a quel piccolo gesto di generosità che aveva compiuto.
Intanto aveva cessato di piovere, il ragazzo era uscito per riprendere il suo cammino e, zì Gianbattista, dimenticato l’accaduto, si unì agli amici e con loro mangiò una zuppa di  fagioli preparata dal taverniere, sellò il mulo e, dopo aver salutato gli amici, riprese la via del ritorno verso Riccia. Arrivò a casa la sera tardi e, stanco com’era, andò a dormire……….. questa era per lui la vita di ogni giorno.
Passarono circa venti anni da quel fatto nella taverna di Campobasso; siamo nel milleottocentosessantuno, il brigantaggio imperversava anche nel territorio di Riccia e nei paesi vicini. I briganti si nascondevano in anfratti e grotte naturali e, il fittissimo bosco “ Mazzocca” che fa parte del territorio di Riccia, grandissimo, impenetrabile, oggi diventato luogo di villeggiatura, era un nascondiglio ideale per i fuorilegge.
Un giorno, nella primavera di quell’anno, zì Gianbattista fu incaricato di recapitare alle poste di Benevento, lettere, plichi e altre cose di valore.
Come sempre, anche quella mattina, con il suo mulo carico, imboccò la mulattiera che portava a Benevento, era una strada obbligata che attraversava proprio il bosco Mazzocca; lui la imboccò con una certa sicurezza, ritenendo che, nonostante il pensiero lo tormentasse, poche fossero le possibilità di poter incontrare i briganti e per questo contava sulla sua buona stella.
All’andata tutto andò liscio, arrivò a Benevento, effettuò il servizio di consegna e gli furono affidate altre cose dall’ufficio postale di Benevento tra cui posta ordinaria, alcuni pacchetti e una cassetta che conteneva valori.
Riprese la via del ritorno, tutto procedeva bene, pensava che anche quella volta, il ritorno a casa sano e salvo fosse cosa fatta, ma non fu così, quel pomeriggio per lui diventò tragico.
CONTINUA…


14 Commenti a “IL PORTALETTERE (del padre di Titina: Nicola Spallone)”

  1. popof scrive:

    Una storia è una storia, poi ugnuno la fa propria con il suo vissuto.
    Aspetto il resto Titina, qualunque esso sia credo abbia dell’eccezionale.

  2. titina.is scrive:

    Ultima nota di precisazione: leggendo alcuni commenti al racconto che ho pubblicato, ho percepito la sensazione che ci possa essere stato un fraintendimento di fondo!!!!: il racconto in questione è stato scritto integralmente (e senza alcuna modifica di alcun genere) dal mio amato papà scomparso esattamente un anno fa; io mi sono semplicemente limitata a riprodurlo, dopo averlo ritrovato tra i carteggi del Suo autore ;-D

  3. Giulio Salvatori scrive:

    Non voglio certamente ergermi a difensore di Titina…, Secondo il mio odesto parere Emmeauerre ha voluto mettere in evidenza particolari storici che a Titina non passavano neanche per la testa .Il suo raccontare è fonte di ricordi fievoli e, così ce li ha donati, con la semplicità di sempre.E’ ovvio che il narrare ti porta a divagare un pò, nel suo caso anche testimonianze di affetto di una persona di famiglia. Chi si vuole addentrare nello specifico storico di quel tempo, nessuno glielo impedisce: ci sono testi specifici. Comunque grazie Emmeauerre (non era meglio nome e cognome ? ) Grazie Titina …al seguito -Il Maledetto toscano

  4. aldo.roma scrive:

    Titina, non mi ero accorto di aver litigato noi due!!! La pace non dobbiamo farla, perchè noi due non abbiamo mai fatto guerra! (per essere in tema)!….piuttosto non farmi aspettare tanto la 2° parte. Grazie!!!

  5. titina.is scrive:

    Emmeauerre, la pubblicazione di quessto testo è stato solo un voler rendere omaggio a mio padre che non c’è più; il racconto, refusi storici a parte, ti sembra scritto da una persona che aveva solo la licenza elementare? Con orgoglio di figlia, anche abbastanza competente, ti dico di no. Grazie comunque per la tua lezione di storia, si capisce che hai competenze in materia e che sai stare in cattedra,infatti……….ho imparato qualcosa! Grazie ancora

  6. titina.is scrive:

    Amici grazie, grazie, grazie a tutti voi per l’ attenzione e per i commenti, se ci fosse ancora il mio papà sarebbe strafelice per i vostri apprezzamenti. Un grazie particolare va ad aldo.roma al quale chiedo umilmente scusa per le mie intemperanze dell’altra mattina, non erano dirette a lui, oltretutto mi rendo conto di essermi trovata in un momento di particolare nervosismo. Pace fatta Aldo?

  7. lorenzo.rm scrive:

    Bello tutto e anche le informazioni ed osservazioni di Emmeauerre. L’unica precisazione in proposito che mi sento di fare è che quando si parla di sardo all’epoca citata, deve dirsi che i sardi c’entrano poco: gli invasori erano piemontesi e del regno di Sardegna erano sudditi di seconda mano. Sulla grandezza di Franceschiello nulla da eccepire malgrado gli stereotipi. Era splendido il regno di Napoli, malgrado la povertà e gli scugnizzi, dalla cultura alle attività economiche. E Napoli era una grande capitale europea.

  8. Emmeauerre scrive:

    Titina, ok, bel racconto e ben scritto. Spero che accetterai qualche osservazione fatta con spirito costruttivo. Cerca, per quanto puoi, di sottrarti allo stereotipo. Sai, il vitto è sempre “ottimo ed abbondante”, la notte “buia e tempestosa”, il paesello “ridente ed ameno”…Francesco II è sempre “Franceschiello” e per soprammercato “irresoluto e dominato dalla moglie negli affari famiglia”.
    Bè, devi sapere che questo personaggio tanto sbeffeggiato, uscì dalla Capitale del suo Regno lasciando tutto in ordine, Governo compreso e andò a Gaeta, alla luce del sole e sotto gli occhi di tutti. Vittorio Emanuele III se ne scappò alle luci dell’alba senza preoccuparsi nemmeno di avvertire i suoi ministri. Ad Ortona c’è una bellissima lapide a ricordo del fatto.
    Un’altra cosa, i primi a ribellarsi alle truppe sarde che entrarono nel Regno furono per ragioni geografiche proprio i tuoi conterranei e sai perchè ? Perchè questi signori che parlavano anche una lingua sconosciuta (gli ufficiali il francese e i soldati il piemontese) si misero subito a fucilare chiunque trovassero armato: all’epoca, pastori e contadini erano normalmente armati quando si allontanavano dai paesi, in campagna.
    Per salvare le apparenze, i fucilatori battezzarono costoro “briganti” sic et simpliciter.
    Certo, in quel grande caos che si determinò, come sempre accade, c’era di tutto,anche persone malintenzionate ma, di sicuro,alla base c’era l’inopinata invasione del territorio da parte di uno Stato ritenuto amico. Ironia delle cose, il pretesto del Regno Sardo per intervenire fu usato un secolo dopo dall’URSS in occasione delle spedizioni in Polonia, Germania Est, Ungheria e Cecoslovacchia…..

  9. nadia4.RM scrive:

    TITINA,molto coinvolgente.aspetto la seconda puntata

  10. Giulio Salvatori scrive:

    Grazie Titina di questo spaccato …aspetto il continuo. Per ora ancora grazie .Molto interessante

  11. aldo.roma scrive:

    Titina, un bel racconto, ma non farci aspettare troppo per la seconda parte, l’incontro e la riconoscenza del “ragazzetto diventato brigante” verso tuo nonno! Molto avvincente.

  12. giovanna3.rm scrive:

    Titina, bellissimo racconto, grazie per avercelo proposto.
    Un caro saluto

  13. lorenzo.rm scrive:

    Titina, una meraviglia. Ti abbraccio.

  14. pino1.sa scrive:

    Titina, non voglio aspettare la seconda parte del racconto già adesso voglio farti i miei complimenti, mi è piaciuta la ricostruzione storica del periodo e l’accenno al fenomeno del brigantaggio molto attivo nello stesso periodo anche nelle nostre zone della Campania, tale fenomeno è stato oggetto di studio di molte tesi universitarie e pare che la loro attività era molto basata sullo stile di Robinud di togliere ai ricchi per dare ai poveri certo che poi c’erano sempre le eccezioni di chi praticava violenza fine a se stessa. Comunque è inutile che mi dilunghi oltre per ribadire che scrivi bene e porgi le cose in modo semplice ma sempre chiare e piacevoli da seguire. Grazie a te ed a Paola.

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