In questi giorni seguendo i giornali ho avuto la sensazione di essere tornata indietro.
Con gli anni più tragici della storia e bui del nostro paese, si ritorna a fare sciopero per aver diritto allo sciopero, che è un articolo Costituzione, il numero 40, dove ognuno è libero di esprimersi nella legalità.
Questo i signori padroni se lo sono dimenticato. La Fiom CGIL dice che è illegittimo il contratto presentato, esso contiene dei profili contro i turni di lavoro, il lavoratore non ha più diritto alla pausa pranzo di mezzora, (questo lo deve fare a fine turno), diritto alla malattia (perdere i primi 3giorni di assenza) ; poi il massimo, lo sciopero negato e poi se scioperi sei anche licenziato. Tutto questo, dice Epifani segretario della CGIL, non succederebbe se applicassero il contratto nazionale.
Da questo è nato il referendum che i lavoratori martedì 22 giugno voteranno. Tanti sono i discorsi su questa questione, ognuno dice le cose a suo favore ma la sostanza è questa.
22 giugno2010 Alba.ge
25.06.2010
Il popolo dalla Cgil scende in piazza contro la manovra in discussione in Parlamento,contro i tagli e i provvedimenti per il pubblico impiego, e più in generale, contro la politica economica del governo. E lo fa oltre che con le tradizionali manifestazioni anche con uno sciopero dei lavoratori del settore pubblico di 8 ore e di 4 ore di quello del settore privato.
In 70mila a Milano 100mila in p.zza maggiore a Bologna. Tanti lavoratori Roma e Milano.
Secondo i nemici dell’accordo la «clausola di responsabilità» va contro l’articolo 40 della Costituzione, quello che garantisce il diritto allo sciopero. Marchionne ha dichiarato: «Stiamo facendo discussioni attraverso televisioni e giornali su ideologie che ormai non hanno più corrispondenza con la realtà, parliamo di storie vecchie di 30-40-50 anni fa, parliamo ancora di padrone contro lavoratore, ma sono cose che non esistono più». Secondo gli esperti il problema, però, esiste. Piero Alberto Capotosti, presidente emerito della Corte Costituzionale: «La giurisprudenza tende a sconfessare gli accordi peggiorativi». Per questo il risicato (almeno dal punto di vista del Lingotto) successo dei sì potrebbe far precipitare la situazione di Pomigliano
Commenti abilitati Sono un ex sindacalista degli anni 65-80. Se l’accordo di Pomigliano verrà firmato verranno vanificate tutti i sacrifici e le lotte che sono state fatte fino ad oggi. Mi viene da piangere. La nuova politica sarà: il ricatto.Il governo dov’è?
Oggi23/6/10
Alle 0,21 si sta profilando la vittoria del si
L ‘asfusso è stato molto alto ma il risultato molto basso chi come me sperava in una rivalsa.
Pomigliano ha alzato la bandiera bianca i lavoratori con il referendo si sono arresi al volere del padrone.
Questo è il frutto di una crisi economica dove il capitalista ha il soppruso
Il loro si è amaro come il fiele in bocca, la respnsabilita di una famiglia gli ha fatto stingere i denti per un tozzo di pane
bisogna anche dire che è un fallimento dei sindacati se tutti etre fossero stati uniti forse il referendo si poteva evitare
ma uno contro due la maggioranza vince
Amaro chi ha bisogno
Il pane ha sette croste
ei lavoratori di Pomigliano lo sanno bene
La deriva italiana contro le conquiste dei lavoratori dei passati decenni è ormai una reltà. Occorre una grande mobilitazione di tutte le forze sane del Paese, non solo dei sindacati ancora degni di questo nome, e che non si esaurisca in una manifestazione di piazza, ma che continui come fatto culturale a tutti i livelli. A causa delle scelte scellerate di politica economica e industriale di questo Governo, ormai è in gioco ul futuro del Paese. Non c’è alcuna possibilità di ripresa se si continua a deprimere la base di consumo. Al fianco dei lavoratori di Pomigliaano e della Fiom, li si gioca anche il nostro futuro! L’unita e la solidarietà dei lavoratori sono essenziali per vincere questa battaglia.
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“Il lavoro non è una merce”: flessibilità e globalizzazione
“La maggior causa della forte domanda di lavoro flessibile da parte delle imprese è la riorganizzazione globale del processo produttivo, attuata allo scopo di ridurre il costo del lavoro e insieme di poter disporre della quantità di forza lavoro di momento in momento necessaria, conforme al criterio del ‘giusto in tempo’, dovendo soddisfare vincoli formali minimi. Poiché il sistema dei diritti dei lavoratori affermatosi nei paesi sviluppati rappresenta a tale doppio scopo un serio ostacolo, la riorganizzazione si è concretata anzitutto nella formazione di ‘catene di creazione del valore’ i cui anelli – gli impianti produttivi – vengono collocati in prevalenza, nel mondo, ovunque i salari e i diritti dei lavoratori siano minori. In tal modo si sono posti direttamente in concorrenza tra loro 1 miliardo e mezzo di nuovi lavoratori ‘globali’ aventi diritti e salari minimi con poco più di mezzo miliardo di lavoratori aventi diritti e salari elevati.
Parallelamente, si è proceduto a esercitare una crescente pressione economica, politica e culturale volta a erodere il suddetto sistema nei paesi in cui esso è cresciuto. Allo stesso fine si sono adoperate sia le organizzazioni internazionali quali l’Ocse, il Fondo monetario e la Commissione europea, sia i governi nazionali. Questi ultimi, compresi i governi di centro-sinistra, in Italia non meno che nel Regno Unito, in Germania e in Francia, hanno assunto la competitività quale compito primario dello Stato, ponendo in essere politiche del lavoro orientate univocamente all’aumento della flessibilità del lavoro quale strumento privilegiato per soddisfare a tale compito. I processi economici oggettivi che vanno sotto il nome di globalizzazione, sostenuti da una legislazione sul lavoro incorporante la concezione del lavoro come merce, hanno portato alla moltiplicazione di lavori flessibili. Quest’ultima ha pertanto prodotto a carico di milioni di persone oneri rilevanti, in primo luogo una crescente insicurezza in tema di occupazione, reddito, identità professionale, carriera, futura pensione, status sociale, progettabilità della vita.
A fronte di simile scenario, si potrebbe pensare che al fine di rendere più sostenibile la flessibilità bisognerebbe cominciare a riflettere sulle sue cause. Per contro è avvenuto che il dibattito sulla flessibilità, da parte di quasi tutti i soggetti, si sia concentrato di preferenza sui modi di temperarne gli effetti. Anche tra i fautori più convinti della flessibilità del lavoro, perché farebbe aumentare gli occupati e il tasso di crescita, v’è chi riconosce che essa comporta per le persone che debbono farvi fronte degli oneri rilevanti, in specie sotto forma d’insicurezza dell’occupazione e del reddito. Fermo restando il giudizio positivo, da parte di chi a priori crede in essa, sui benefici economici e sociali che la flessibilità è supposta produrre, si è quindi fatta strada, in Italia come in altri paesi, l’idea che sia utile mirare a renderla sostenibile ‘coniugandola’ con la sicurezza sociale, idea che si compendia nel termine flessicurezza.”
Luciano Gallino, Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità (pagg. 119-121)
Tempi di lavoro simili a quelli dei robot, nessun diritto allo sciopero, salari tendenzialmente più simili a quelli delle zone industriali della periferia del mondo in cui negli anni scorsi è stata delocalizzata la produzione fordista, subalternità totale ai ritmi, ai tempi, alle esigenze dell’azienda.
Le alternative proposte a questo scenario da incubo? Le dimissioni e quindi rimanere senza lavoro in un’area ad alta disoccupazione, oppure una vita da schiavi industriali fino a quando ce la si fa, infine il suicidio quando “non ce la si fa più” (come accaduto in alcune aziende francesi, messicane, cinesi, coreane, giapponesi).
La Fiat ancora una volta illumina la strada sulla realtà della competizione globale e dei criteri con cui il lavoro deve essere reso completamente subalterno al capitale.
(dal blog bella ciao)
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“Il lavoro non è una merce”: flessibilità e globalizzazione
“La maggior causa della forte domanda di lavoro flessibile da parte delle imprese è la riorganizzazione globale del processo produttivo, attuata allo scopo di ridurre il costo del lavoro e insieme di poter disporre della quantità di forza lavoro di momento in momento necessaria, conforme al criterio del ‘giusto in tempo’, dovendo soddisfare vincoli formali minimi. Poiché il sistema dei diritti dei lavoratori affermatosi nei paesi sviluppati rappresenta a tale doppio scopo un serio ostacolo, la riorganizzazione si è concretata anzitutto nella formazione di ‘catene di creazione del valore’ i cui anelli – gli impianti produttivi – vengono collocati in prevalenza, nel mondo, ovunque i salari e i diritti dei lavoratori siano minori. In tal modo si sono posti direttamente in concorrenza tra loro 1 miliardo e mezzo di nuovi lavoratori ‘globali’ aventi diritti e salari minimi con poco più di mezzo miliardo di lavoratori aventi diritti e salari elevati.
Parallelamente, si è proceduto a esercitare una crescente pressione economica, politica e culturale volta a erodere il suddetto sistema nei paesi in cui esso è cresciuto. Allo stesso fine si sono adoperate sia le organizzazioni internazionali quali l’Ocse, il Fondo monetario e la Commissione europea, sia i governi nazionali. Questi ultimi, compresi i governi di centro-sinistra, in Italia non meno che nel Regno Unito, in Germania e in Francia, hanno assunto la competitività quale compito primario dello Stato, ponendo in essere politiche del lavoro orientate univocamente all’aumento della flessibilità del lavoro quale strumento privilegiato per soddisfare a tale compito. I processi economici oggettivi che vanno sotto il nome di globalizzazione, sostenuti da una legislazione sul lavoro incorporante la concezione del lavoro come merce, hanno portato alla moltiplicazione di lavori flessibili. Quest’ultima ha pertanto prodotto a carico di milioni di persone oneri rilevanti, in primo luogo una crescente insicurezza in tema di occupazione, reddito, identità professionale, carriera, futura pensione, status sociale, progettabilità della vita.
A fronte di simile scenario, si potrebbe pensare che al fine di rendere più sostenibile la flessibilità bisognerebbe cominciare a riflettere sulle sue cause. Per contro è avvenuto che il dibattito sulla flessibilità, da parte di quasi tutti i soggetti, si sia concentrato di preferenza sui modi di temperarne gli effetti. Anche tra i fautori più convinti della flessibilità del lavoro, perché farebbe aumentare gli occupati e il tasso di crescita, v’è chi riconosce che essa comporta per le persone che debbono farvi fronte degli oneri rilevanti, in specie sotto forma d’insicurezza dell’occupazione e del reddito. Fermo restando il giudizio positivo, da parte di chi a priori crede in essa, sui benefici economici e sociali che la flessibilità è supposta produrre, si è quindi fatta strada, in Italia come in altri paesi, l’idea che sia utile mirare a renderla sostenibile ‘coniugandola’ con la sicurezza sociale, idea che si compendia nel termine flessicurezza.”
Luciano Gallino, Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità (pagg. 119-121)
Tempi di lavoro simili a quelli dei robot, nessun diritto allo sciopero, salari tendenzialmente più simili a quelli delle zone industriali della periferia del mondo in cui negli anni scorsi è stata delocalizzata la produzione fordista, subalternità totale ai ritmi, ai tempi, alle esigenze dell’azienda.
Le alternative proposte a questo scenario da incubo? Le dimissioni e quindi rimanere senza lavoro in un’area ad alta disoccupazione, oppure una vita da schiavi industriali fino a quando ce la si fa, infine il suicidio quando “non ce la si fa più” (come accaduto in alcune aziende francesi, messicane, cinesi, coreane, giapponesi).
La Fiat ancora una volta illumina la strada sulla realtà della competizione globale e dei criteri con cui il lavoro deve essere reso completamente subalterno al capitale.
(dal blog bella ciao)