Ecco un bel racconto di Adso… ampio è lo spunto che ci dà per riflettere
IL DOLORE DI UN AMICO
(Racconto basato su una Storia Vera)
Al mio amico Marco.
*
Entrai nel bar a un orario in cui i fumi esalati dai grappini e dalle “Vecchia Romagna” consumati da coloro a cui serve una sferzata per iniziare la giornata, stavano per essere completamente assorbiti dall’aroma delle brioches appena sfornate. Mi sedetti al tavolino vicino alla finestra per godere della brezza che la domenica estiva concedeva provvisoriamente alle prime ore della mattinata. Nell’attesa del cappuccino e della brioche, tassativamente farcita di marmellata d’albicocca, presi a sfogliare il giornale locale soffermandomi con maggior attenzione sulla pagina della cronaca. Nonostante il giornale uscisse in edicola solo due giorni alla settimana, il giovedì e il sabato, era evidente lo sforzo profuso dalla redazione per trovare un congruo numero di notizie degne di essere pubblicate: la banale scoperta di un aumento del numero delle processionarie nel parco della città si sarebbe guadagnata, senza esitazione, il titolo di prima pagina. Eppure riusciva a consolidare una più che discreta tiratura. Del resto è risaputo come faccia più notizia il vicino di casa che si frattura una gamba cadendo dal ciliegio in giardino, rispetto alle migliaia di morti causate da uno tsunami in un paese di cui abbiamo difficoltà soltanto a pronunciarne il nome. Ma ciò che leggevo con malcelato piacere era la rubrica di “steno nera”. In sostanza si trattava di una sintesi, disposta in ordine cronologico sui giorni della settimana, di piccoli incidenti legati alla viabilità. Ottenevano risonanza anche avvenimenti del tutto trascurabili, in cui non si lamentavano danni né a cose né a persone, e che i soggetti coinvolti avevano risolto all’amichevole, magari limitandosi a mandarsi reciprocamente “a quel paese”. La cosa che però ogni volta mi divertiva era la terminologia fine ottocentesca impiegata nel redigere taluni articoli nella rubrica sopracitata. Ecco un esempio: “Nella giornata di martedì, un autocarro ha urtato un velocipede e il proprietario di quest’ultimo ha avuto la peggio lamentando una ferita abrasa al gomito destro”. Tralasciando ogni giudizio in merito alla ridicola puntualizzazione dell’incolumità dell’autista a scapito del povero ciclista, trovavo altrettanto buffo il ricorso enfatico al termine velocipede, che mi richiamava alla mente un signore impettito, in frac, cappello a cilindro e baffoni a manubrio, che spingeva in avanti un mezzo con la ruota anteriore della circonferenza pari alla ruota di un mulino. Mentre cercavo di formulare una congettura per quelle singolari scelte editoriali che bandivano senza remissione anche il termine motociclista sostituendolo col richiamo epico al centauro, entrò Marco, un mio caro amico. Non lo vedevo da parecchi giorni, forse settimane, tanto che questa sua inusuale latitanza veniva rimarcata ogni sera da qualcuno del nostro gruppo di amici con la fatidica frase: “Ma che fine ha fatto Marco?”, a cui ciascuno forniva un apporto sempre compreso tra il fantasioso e l’inverosimile. Marco si guardò intorno e appena mi vide si diresse verso di me, avanzando come un forzato in catene. Il suo aspetto sofferente mi creò un turbamento che cercai di dissimulare rimproverandolo affettuosamente per aver abusato delle sue risorse e d’aver preteso un po’ troppo dal suo fisico. Ignorò del tutto la mia battuta. Si appoggiò con entrambe le mani allo schienale della sedia di fronte a me e chinandosi in avanti mi sussurrò:
“Speravo di trovarti qui stamattina – ho bisogno di un grosso favore da te”.
Mi stupì il tono supplichevole della sua richiesta. Siamo amici dai tempi delle elementari e abbiamo fatto sempre parte della stessa compagnia che, per usare un eufemismo, era piuttosto vivace, e insieme ne abbiamo combinate di ogni, senza tuttavia mai valicare i confini del lecito. La compattezza del gruppo, che era abbastanza numeroso, si era un po’ allentata a causa del servizio di leva che ci separò, a turno, per quindici lunghi mesi. Anche i più attivi del gruppo tornarono molto ridimensionati nei loro slanci o forse più maturi, tanto da privare gli altri del loro effetto trainante. Alla staticità o peggio alla stagnazione dell’entusiasmo per le vecchie iniziative, subentrò la noia che ebbe come conseguenza una diaspora che assecondava istinti e sentimenti di diversa natura. Qualcuno spariva per un certo periodo e poi ritornava con la “sua ragazza” conquistata fuori dai nostri canali abituali. Fra tutti i componenti del gruppo Marco, che era il più giudizioso, aiutato anche dalla sua indole mite, fu il primo a sentire pressante il bisogno di coltivare una relazione sentimentale stabile. Le sue presenze si diradarono pur senza mai cessare del tutto, e anche quando tornò con Gabriella, che ci presentò ufficialmente come la sua fidanzata, fu quasi solo per un obbligo verso i vecchi amici e non per un effettivo desiderio di reinserirsi stabilmente con lei nella compagnia. Non posso dire di aver conosciuto a fondo Gabriella. La ricordavo superficialmente come una ragazza briosa e dal viso sbarazzino che accentuava ancora di più la sua gaiezza, tale da compensare pienamente la sobrietà a volte eccessiva di Marco: sembravano fatti l’uno per l’altra. Rimaneva soltanto la mia perplessità per certi comportamenti un po’ esagerati di lei, configurabili come dei capricci infantili, e che Marco accettava con un’indulgenza che rasentava la sottomissione. Tuttavia dovetti prendere atto che il loro rapporto procedeva ormai da un paio d’anni senza apparenti problemi.
E Marco era lì davanti a me, un uomo in balia di qualcosa di indefinito e spaventoso. Il suo volto non accusava solo segni di stanchezza come quello di chi ha perso molte ore di sonno, ciò che colpiva era l’impronta del dolore che segna il volto di chi sta soffrendo da troppo tempo. Lo conoscevo da una vita e non l’avevo mai visto in quello stato: doveva trattarsi di qualcosa di molto serio. Mentre facevo cenno al barista di portargli un caffè, lo invitai a sedersi pregandolo solo di non mortificarmi con una richiesta impossibile che non avrei potuto soddisfare, e che invece per tutto il resto avrebbe potuto contare su di me. Mi parve un po’ più rinfrancato e accennò un sorriso malinconico. Si sedette e io stetti ad osservare per un po’ le dita delle sue mani che si intrecciavano nervosamente con le sue pene, poi butto lì di getto:
“Devo urgentemente raggiungere Gabriella che è ricoverata al sanatorio di “O”, e questa mattina non ho il mezzo per arrivarci”.
Sapevo che in quel luogo finivano tutti i malati di tubercolosi polmonare, e a stento riuscii a dissimulare lo sconcerto che mi procurarono le sue parole. Per superare la difficoltà del momento gli chiesi con pacatezza da quanto tempo era ricoverata e lui mi rispose da più di due mesi. Praticamente il tempo della sua latitanza dalla compagnia. Stavo formulando la domanda sulle condizioni fisiche di Gabriella quando lui mi afferrò il polso pregandomi di avviarci subito perché aveva molte cose di cui parlarmi e intendeva farlo durante il tragitto. Conoscevo il luogo e il percorso per raggiungerlo. “O” è un paese che confina con quello in cui sono nato e da cui mi trasferii con tutta la famiglia da bimbetto. Ricordavo spezzoni di conversazione dei miei genitori che mi impressionavano, a proposito di quell’ospedale, che consideravano luogo di sventura dal quale ci si poteva già considerare miracolati ad uscire, anche con il fisico minato per sempre. Ricordi di un bimbo di cinque anni, quando il tasso di mortalità per queste forme di malattia era altissimo. Marco trangugiò il suo caffè in un sorso, e uscimmo per raggiungere la macchina. Per il primo tratto di strada rimanemmo in silenzio. Marco era assorto nei suoi pensieri e immaginai che stesse elaborando una versione dei fatti da espormi. Rimasi in attesa, lasciando a lui la decisione di come e quando farlo. Lo sentii emettere un sospiro profondo, poi iniziò a raccontare:
“Tutto ebbe inizio verso la fine dell’inverno scorso, con Gabriella affetta da una tosse persistente e febbre molto alta che si protraeva da diversi giorni. Il medico di famiglia aveva diagnosticato con troppa leggerezza che si trattava di una forma influenzale con una secondaria complicazione broncopolmonare che a suo giudizio si sarebbe risolta con una buona dose di antibiotico a largo spettro. Trascorsa una settimana di cure, degli auspicati miglioramenti non c’era traccia e Gabriella sembrava deperire sempre più. Non recuperava l’appetito e il pallore sul viso era sempre più accentuato: era ridotta uno straccetto. Confidai la mia preoccupazione ai genitori che si convinsero a sottoporla ad una visita specialistica e a un esame radiologico. L’esito fu sconvolgente: era affetta da una grave forma di TBC. I genitori mi comunicarono la diagnosi quando lei era già stata ricoverata in un sanatorio di cui, nonostante le mie insistenze, mi fu negato il nome. Addussero come pretesto, perché di questo si trattava, che per un periodo di almeno tre settimane, Gabriella sarebbe stata tenuta in totale isolamento e che i sanitari si erano altresì raccomandati di evitare anche contatti telefonici inessenziali. Rimasi molto amareggiato da quello che interpretai come un ingiusto accantonamento e una mancanza di fiducia nei miei confronti. Mi mantenni comunque in contatto quotidianamente con la madre per avere sempre notizie aggiornate. Ma ad ogni telefonata sentivo radicarsi in me l’inquietante convinzione che la sua sempre più evidente laconicità avesse lo scopo di aumentare la mia estraneità e di spingermi ai margini degli eventi. Per tre settimane i medici sottoposero Gabriella a cure intensive a base di antibiotici specifici per eliminare qualsiasi possibilità di contagio. Trascorsi tre settimane d’inferno, combattuto tra l’inclinazione ad assecondare brutalmente l’istinto di andare in soccorso di Gabriella, e il ricorso a un fragile autocontrollo che rendeva sempre più arduo mantenere il comportamento razionale che mi confinava dentro un’impotente attesa. Finalmente venne il giorno in cui nulla e nessuno avrebbe potuto ostacolare il mio riavvicinamento a Gabriella. Scelsi di recarmi di persona alla sua abitazione, deciso a pretendere dai suoi genitori che mi fosse comunicato il nome e l’indirizzo dell’ospedale in cui era ricoverata la figlia. Fui accolto con estrema freddezza dalla madre che alla mia richiesta cercò ancora una volta di tergiversare attuando la medesima strategia usata nei contatti telefonici. La incalzai senza flettere dalla mia ferma volontà di incontrare Gabriella. Lei si oppose strenuamente intimandomi, per il bene di sua figlia, di rinunciare a qualsiasi contatto perché le cure avevano debellato il male ma l’avevano molto debilitata e ora, ciò che le serviva, era un lungo periodo di convalescenza lontana da emozioni e stress. Esasperato dall’inaccettabile spiegazione le rivolsi a muso duro l’accusa di mentirmi spudoratamente fin dall’inizio di questa incredibile storia. Presagivo una dura reazione alla mia accusa, ma non di quella violenza. Uno spasmo le deformava la fisionomia mentre mi urlava contro che lei, da madre, aveva solo rispettato la volontà di una figlia gravemente malata che, già nell’immediatezza della diagnosi, l’aveva supplicata di lasciarmi completamente all’oscuro della sua sorte, e di ricorrere a qualsiasi mezzo affinché io la dimenticassi. Incoraggiata dagli effetti devastanti delle sue parole, che si erano abbattute su di me come una travolgente ondata nera, e constatata la mia ormai irreversibile vulnerabilità, continuò ad infierire. Con il volto livido sibilò gelidamente che Gabriella non aveva mai più chiesto di me, nemmeno una volta da quando era ricoverata, se non per avere rassicurazioni che il loro patto continuasse ad essere rispettato.
Ero sconvolto, non potevo credere che la stessa persona che mi aveva sempre dimostrato stima e simpatia avesse subito una metamorfosi tale da accanirsi in un modo così malvagio.
Dovevo assolutamente scoprire dove si trovasse Gabriella. Non potevo rassegnarmi a dover vivere in un incubo e a subire una situazione così confusa, assurda, inaccettabile. Cercai di contattare con molta discrezione tutte le persone che la conoscevano, indagai anche nel suo ambiente di lavoro, ma inutilmente: qualcuno sapeva della sua malattia ma non dove si stesse curando, altri guardandomi con diffidenza avevano eluso le mie domande e altri ancora, con espressione stupita, mi risposero che ne sentivano parlare da me per la prima volta. In principio scartai tutti i suoi legami di parentela che mi erano noti per non scontrarmi nuovamente contro un muro di reticenza e di omertà. Poi mi sovvenne di una sua cugina, di qualche anno maggiore di noi e già sposata, con cui, io e Gabriella, avevamo instaurato un bel rapporto e trascorso piacevoli serate in compagnia del marito, persona affabile quanto lei. La chiamai al telefono e le chiesi di poterla incontrare a una qualsiasi ora del giorno e della notte perché avevo urgente bisogno di parlarle. Il suo silenzioso esitare mi angosciò, ma prima di sentirmi respingere anche da lei, le confessai che ero alla disperata ricerca di qualcuno che mi aiutasse a dare un senso a questa storia, a comprenderla affinché, per il bene di tutti, potesse trovare il suo epilogo. Giunsi perfino ad umiliarmi chiedendole per pietà di aiutarmi perché da solo non potevo farcela. Dopo qualche attimo, che mi parve eterno, sentii di nuovo la voce dall’altro capo del filo che mi offriva la sua disponibilità a parlarne direttamente per telefono; riteneva superfluo un incontro in quanto era convinta che l’essenziale fosse già a mia conoscenza, e che altri particolari, se mai ce ne fossero stati, non avrebbero potuto che aumentare la mia sofferenza. Mi confermò totalmente quanto mi era stato vomitato addosso dalla madre di Gabriella, ma al contrario lei reputava un mio diritto conoscere il luogo dove era ricoverata Gabriella e poterle parlare almeno una volta. Mi dettò l’indirizzo e io la ringraziai di cuore. Poi, al momento del commiato, colsi una lieve esitazione nella sua voce. Le chiesi se avesse ancora qualcosa da riferirmi. Colsi il suo imbarazzo ed io insistetti, assicurandola che ero pronto a tutto, e la convinsi a dirmi ciò che lei mi stava pietosamente tacendo per risparmiarmi altri dispiaceri. Con palese riluttanza e sincero rammarico, mi riferì di una confidenza fattale da Gabriella e di cui non erano a conoscenza nemmeno i suoi genitori. Si trattava di un ragazzo, afflitto dallo stesso male di Gabriella, che fin dal suo arrivo la sostenne nel drammatico impatto con quell’ambiente desolato in cui, alla deprimente sensazione che trasmetteva a prima vista, si sommava l’angoscia di non sapere quando se ne sarebbe usciti. Il carattere estroverso, sostenuto da un’accattivante simpatia e il suo prodigarsi con generosità a sostenere chi si trovava in difficoltà, originarono un debito di riconoscenza da parte di Gabriella nei suoi confronti che, col passare del tempo, si era trasformato in un sentimento d’affetto molto, molto profondo. Mentre ascoltavo le parole della cugina sentii qualcosa spezzarsi dentro di me liberando una rabbia devastante. Evidentemente mi ero sopravvalutato, non ero affatto pronto a tutto! Cercai uno sfogo all’astio che mi avvelenava rimarcando sarcasticamente il calcolo freddo con cui il “Buon Samaritano” aveva saputo impiegare le sue eccelse qualità di illusionista per dissolvere un amore vero. La cugina, pur comprensiva per la mia amarezza, mi pregò di non essere ingiusto, anche con me stesso; se una persona aveva aiutato Gabriella in un momento estremamente difficile, era sbagliato dolersene e ingeneroso non dargliene merito. Le chiesi scusa per il mio sfogo meschino e la ringraziai per l’onestà che mi aveva dimostrato.
Appena riattaccai divenni preda di un’agitazione incontrollabile. Il foglietto con l’indirizzo che mi rigiravo fra le dita era la garanzia di un’altra notte insonne. L’ora tarda mi proibiva anche solo di ipotizzare un contatto con Gabriella, ma dentro di me sentivo che se solo mi fossi avvicinato al luogo dove lei si trovava avrei trovato un po’ di pace. Era indispensabile che io andassi là, subito, indispensabile più dell’aria che respiravo. Raggiunsi senza difficoltà il paese. Mi fermai nella piazza centrale, contattai un passante che mi fornì gentilmente le informazioni per raggiungere la casa di cura. Percorsi circa un chilometro lungo la strada che portava fuori dal paese. Le luci fioche delle lampade votive mi segnalarono il cimitero, che corrispondeva all’informazione che mi era stata data. Una volta superato il cimitero, dovevo fare molta attenzione, perché poco più avanti avrei dovuto imboccare una stradina laterale male illuminata che mi avrebbe portato a destinazione. Svoltai a destra seguendo la segnalazione di un cartello con la croce rossa e una scritta illeggibile. Percorsi un primo tratto di campagna piatta e oscura, poi mi venne incontro un bosco e la strada si fece più sinuosa. Quando cominciai a temere che nel buio mi fosse sfuggita qualche indicazione, vidi in fondo a un breve rettilineo un cancello illuminato da una luce giallastra. Mi avvicinai col motore al minimo pregando che non ci fossero cani a tradire la mia presenza. Fermai la macchina su uno spiazzo sterrato. Accostai senza far rumore la portiera e mi avvicinai al cancello. La luce che lo illuminava proveniva da una lampada esterna a una palazzina che presumibilmente fungeva da portineria. Dall’interno non proveniva alcun rumore e le luci erano tutte spente. Oltre il cancello si dipartiva un vialetto che tagliava in due un giardino e conduceva a un grande edificio, che appariva sullo sfondo, disposto su due piani e parzialmente nascosto da alberi di alto fusto. L’ingresso principale era l’unico punto illuminato. I miei occhi rimasero fissi su quel fascio di luce che proiettava come su uno schermo la mia vita con lei, i ricordi del passato, e il presente di una porta che si apriva per far apparire Gabriella. Quella porta non si aprì. Cose simili non accadono nella vita reale. Non so quanto tempo rimasi in quella posizione, ma credimi amico mio, quella sera, davanti a quel cancello chiuso, fu l’ultima volta che sentii Gabriella ancora mia.
Ritornai il mattino dopo e poi il giorno successivo e poi ancora e ancora, sempre lontano dagli orari di visita per evitare spiacevoli incontri con i suoi genitori. L’addetto alla portineria mi aveva assicurato che bastava il consenso della degente per autorizzare l’accesso al visitatore anche fuori orario: Gabriella si fece sempre negare. Non mi rimaneva che arrendermi, lasciando che il destino completasse il suo disegno oscuro, rinunciando alla ragione per difendere ciò che restava della mia dignità di uomo.
La svolta del destino è avvenuta ieri sera, con la telefonata della cugina di Gabriella che mi informava di essere andata a farle visita e di aver concordato un incontro con me per la mattina successiva. Questo è tutto” – concluse Marco col medesimo sospiro con cui aveva iniziato a raccontare.
Rimasi in assoluto silenzio durante il lungo e drammatico racconto, e alla fine mi resi conto di quanto doveva essere complicato per Marco veder chiaro attraverso il velo di lacrime calato dai sentimenti. Avrei voluto imporgli di non sollevare l’ultimo drappo della verità perché si finisce sempre per scoprire più di quanto è necessario sapere, e il superfluo è sempre impregnato di sofferenza. Ma ogni uomo ha il diritto di vivere il suo destino fino in fondo e a pagarne il prezzo. Io tacqui.
Eravamo giunti all’ingresso dell’ospedale. Parcheggiai la macchina nello stesso punto in cui Marco disse di aver sostato la prima sera. Il cancello era spalancato e tutto era armoniosamente a posto: i cespugli di ortensie, il vialetto bianco, il tappeto verde di erba rasata, la simmetrica disposizione degli abeti, gli edifici color giallo ocra uniformemente illuminati dal sole. Tutto era in ordine, tutto con una sua precisa collocazione, tranne Marco ed io. Lungo il vialetto centrale veniva verso di noi un gruppo di sei persone, due ragazzi e quattro ragazze, tra le quali riconobbi Gabriella che camminava a fianco di un tizio biondo con l’espressione da tonto che le cingeva la vita con un braccio. Da quella distanza mi sembrava quella di sempre, allegra e spensierata, ma non ero in grado di valutare quanto per finzione, e sarebbe stato ingeneroso escludere che avesse molto patito le pene della malattia e anche sofferto per le decisioni che ebbe a trarre. Evitai di controllare l’espressione sul volto di Marco e continuai a guardare il gruppo che si avvicinava. Appena si accorsero della nostra presenza, il biondo con l’espressione da tonto intonò a gran voce un vecchio motivo per irridere il mio amico: “E’ arrivato l’Ambasciatore con la piuma sul cappello, è arrivato l’Ambasciatore a cavallo di un cammello …”, strappando una sonora risata a tutti i componenti dell’allegra brigata, compresa Gabriella. A mezza voce Marco mi confermò che la cugina gli aveva descritto il consolatore di Gabriella, il buon Samaritano per intenderci, come un tipo dai capelli biondi. Per il mio temperamento ce n’era d’avanzo per andare a complicargli, a modo mio, i suoi già considerevoli problemi. Marco mi afferrò per un braccio intimandomi di stare calmo per non compromettere tutto. E’ proprio vero che Dio distribuisce i carichi di sopportazione nella misura in cui ciascuno è in grado di reggerli. Nel frattempo il gruppo si era fermato circa a metà del vialetto. Gabriella, dopo essersi svincolata dal biondo, avanzò da sola di qualche passo e Marco a sua volta si avviò verso di lei a passo lento, con cautela, come se avesse dentro di sé qualcosa di estremamente fragile.
Gabriella mi inviò un cenno di saluto agitando la mano con il braccio alzato che contraccambiai nella stessa maniera. Li lasciai soli, fermi uno di fronte all’altra, sottraendomi rapidamente alla loro vista per non dare un’impressione di insofferente attesa che avrebbe potuto in qualche modo condizionare i tempi del loro incontro. M’incamminai per uno stretto sentiero che dal cancello d’ingresso piegava subito a destra ai margini del fitto bosco di abeti. Il viottolo correva parallelo al muro perimetrale aggredito da edera e muschio e leso da squarci di umidità che evocavano volti grotteschi con la bocca spalancata in un urlo agghiacciante che, come tetri simulacri, parevano testimoniare la disperazione che regnava in quel luogo. Gli abeti più possenti che stendevano i rami oltre la sommità del muretto, formavano un tetto ombroso per lunghi tratti del percorso intervallato da vaste aperture che permettevano di osservare il cielo terso, appena solcato da rare striature di nubi sfilacciate dalla brezza. Attraverso i varchi tra gli alberi potevo ancora intravedere il viale centrale e le sagome dei miei due amici, fermi nel punto in cui li avevo lasciati. La cattiva suggestione di quel luogo mi vietava di respirare a fondo il fresco profumo esalato dalla pineta. Lo percepivo uguale in tutto al profumo che aleggia nei boschi di conifere in montagna, ma non mi riusciva che di associarlo all’odore opprimente diffuso dai filari di cipressi di un cimitero. Sentivo sulla pelle il gelido alito di quel luogo di sventura. Ad ogni passo cresceva dentro di me, in modo sempre più incalzante, l’insidioso presentimento che quell’incontro e il dialogo che si stava svolgendo, non avrebbero condotto a niente di buono, tanto che mi ritrovai a scuotere il capo in segno di diniego come per allontanare in qualche modo il triste presagio che si stava fissando nella mia mente.
All’improvviso ebbi la sensazione che dalla penombra del bosco qualcuno mi stesse osservando. Un semplice “ciao” mi confermò la presenza di una ragazza seduta su una panchina con un libro chiuso tra le mani. Due occhi grandi che risaltavano nel pallore del suo viso e il vestito in tinta pastello leggermente vaporoso che le copriva in parte il collo lungo e magro, le donavano un tocco di grazia nobile. Sulle spalle gracili e aguzze, che conferivano un aspetto di fragilità a tutto il corpo, aveva posato un golfino per ripararsi dall’eccessiva frescura della zona ombrosa. Mi avvicinai sorridendo e anche le sue labbra fino ad allora tristemente serrate si aprirono a un tenue sorriso. Le porsi la mano e ci presentammo: si chiamava Elena; e senza alcun motivo logico, maturai la convinzione che nessun altro nome sarebbe stato più adatto alla sua persona.
“Sei venuto in visita a qualche parente?” debuttò con lo sguardo indefinibile, distratto e allo stesso tempo indagatore.
“Ho solo accompagnato un mio amico a trovare la sua ragazza; lei si chiama Gabriella” – le risposi con garbo.
“Ah, quello di prima!” commentò turbata.
“Quello di prima? – Cosa intendi dire!” – le chiesi sorpreso e senza celare un certo disappunto.
“Non fraintendermi, non mi riferivo a un prima o a un dopo di due individui ma a una dimensione molto più grande, alla separazione di due mondi” – aggiunse seria.
“Temo di non comprenderti” – replicai mentre mi sedevo al suo fianco sulla panchina.
“C’è un mondo prima della malattia e un mondo creato dalla malattia – Due mondi vicini, ma divisi da una barriera edificata su una solida base di rabbia e sofferenza, rinunce e rimpianti, che si eleva imponente sostenuta dalle speranze rubate e dalle illusioni perdute e, sulla sommità, l’invalicabile cavallo di frisia della disperazione. Il primo mondo lo conosci, nell’altro ci sono io e quelli come me – persone offese e malate, consapevoli e rassegnate alla inadeguatezza acquisita con la malattia, che li confina in spazi angusti in cui i sentimenti del passato non devono penetrare – Le esperienze fatte in questo mondo ti maturano in fretta, però non ti permettono di portare con te i sentimenti e le speranze che accompagnano la giovinezza. Sono qui da un tempo sufficiente per pretendere che tu creda alla legittimità delle mie parole”.
Ero sconcertato dalle affermazioni di Elena e reagii con un tono di rimprovero:
“La vostra è una scelta non solo sbagliata ma anche drammaticamente egoistica. Perché rinunciare ad ogni affettività, perché respingere chi vi ama e costringerli ad esiliarsi dai sentimenti? “.
Elena replicò in modo concitato e febbrile:
“Evitare umiliazioni e infamità tu lo consideri una scelta sbagliata e un atto di egoismo? Non puoi immaginare quanta umiliazione si celi tra le pieghe dell’ostentata compassione di chi ti guarda, e quanta infamità nei loro gesti involontari per mantenere la distanza di sicurezza dal contagio, nonostante i medici lo escludano in modo assoluto”.
“E i tuoi genitori e le persone che ti amano? Anche nei loro occhi sei riuscita a leggere qualcosa di diverso dall’amore e dal riflesso della tua stessa sofferenza? le chiesi risentito.
“I miei genitori sono l’unico contatto che conservo con il mondo di prima, sono la loro figlia, e loro possono perdonarmi di non essere più la stessa persona” – rispose con voce strascicata.
“Quanto hai affermato evidentemente non vale per tutti gli ospiti” – dissi cercando di mitigare il tono provocatorio della mia domanda – “a quanto mi risulta Gabriella si è rifatta con soddisfazione dalle rinunce patite allontanandosi da quello che tu definisci “il mondo di prima” – aggiunsi con malcelata ironia.
“Rifletti per un istante sulla condizione drammatica in cui si è costretti a vivere qua dentro, e poi dimmi quali azioni non saresti disposto a giustificare per avere una tregua alla sofferenza” – ribatté Elena col tono di chi cerca di evitare di scendere nei particolari.
Ma poi vista la mia espressione scettica proseguì – “Nessuno qui pretende un amore che non può corrispondere, la passione è una cosa spenta e un’avventura, circoscritta tra quattro mura, è desolante. E io non condanno chi cerca, anche attraverso un compagno occasionale, l’illusione di una fuga da queste miserie” – concluse amaramente Elena.
“Quindi a parte i tuoi genitori, nessun altro è degno di continuare ad amarti? Sei molto graziosa per non avere qualcuno che ti ami di un amore vero” – le chiesi con un sorriso incerto.
“Sì, avevo un ragazzo. Ci legava un grande sentimento e insieme abbiamo vissuto momenti molto felici, gli ultimi momenti felici della mia vita. Ed è in giornate come questa che mi sento assalita dalla peggiore malinconia. Eravamo proprio qui, dove siamo noi ora, quando per la prima volta vidi qualcosa che mi fece più male della malattia: la pietà negli occhi di chi mi ha amata. E fu come se la macchia maligna che ha minato il mio fisico avesse aggredito, come una metastasi inarrestabile, anche il nostro sentimento. Gli chiesi di non tornare mai più”.
Queste furono le ultime parole che Elena riuscì a pronunciare, con la voce rotta dalla commozione, poi abbassò gli occhi diventati troppo lucidi.
La tragica narrazione di Elena mi lasciò senza scampo, pervaso da un senso di insanabilità, come se in quel luogo non ci fosse più nulla da salvare, tutto era già sopravvissuto a qualcosa di terribile.
Mi alzai e vidi che al di là degli alberi il viale era deserto. Presi la mano di Elena tra le mie in un gesto di commiato che escludeva le parole, mentre una sensazione di pena e rincrescimento mi trafiggeva il cuore.
Andai via portando con me l’eco delle parole di Elena, e con il triste presentimento che le medesime parole Marco le avesse udite pronunciare dalle labbra di Gabriella.
Marco mi stava aspettando appoggiato alla macchina, a capo chino fissava un punto imprecisato del terreno, forse l’unico in tutto l’universo in cui non era dilagata la sua disperazione. Non si accorse del mio arrivo e si scosse solo quando aprii la portiera. Salimmo in macchina senza scambiarci una parola. Non c’era nulla da aggiungere alla sceneggiatura tragicamente perfetta scritta dal destino.
Mi sforzai di provare la sua stessa disperazione ma mi riusciva solo di compiangerlo. Desideravo con tutto me stesso di poterlo aiutare, di dargli sollievo attraverso consigli e la condivisione del suo stato d’animo, di regalargli un minimo di consolazione, ma avevo intuito che, per pudore, lui stesso mi aveva nascosto molte cose, limitandosi a confidarmi solo quanto poteva servirmi per sorreggerlo. Ed io, con le parole di Elena che ancora turbinavano nella mia mente, mi stavo rendendo conto che con più mi inoltravo nei tentativi di mostrargli la mia complicità, maggiore era l’obbligo di dovergli mentire.
“Il dolore passa, tutti i dolori passano, anche il più inspiegabile e ingiusto, come quello per un amore che ti viene strappato via. Il tempo porterà lontano anche il ricordo del lamento e del rimpianto, e domani, quando un volto, un sorriso o una voce lo farà tornare, sarà privo di sofferenza e potrai rivestirlo di tenera nostalgia”.
Marco sembrò non aver udito le mie parole e, solo volgendo lentamente il capo verso il finestrino laterale, trovò la forza per dire:
“Mi ha chiesto di non tornare più”.
Rimanemmo in silenzio per tutto il resto del tragitto. Lui insisteva a guardare fisso la campagna che si stendeva davanti ai suoi occhi, un paesaggio senza rilievi, a eccezione di qualche fattoria sparsa qua e là in cui risaltavano silos agricoli, insufficienti a rompere quella monotonia piatta che avrebbe potuto strapparlo ai suoi angosciosi pensieri. Forse piangeva.
Adso
Con questo toccante racconto Adso ci mette di fronte ad una realtà molto dolorosa… che ne pensate? Siete d’accordo col comportamento della ragazza? Lo capite?
In sintesi dico che non possiamo sapere i pensieri che hanno attraversato la mente di Gabriella nel momento in cui ha preso coscienza del suo nuovo stato e dei cambiamenti che sarebbero avvenuti nel doversi rapportare con il mondo “esterno” alla sua situazione.
La sua decisione di allontanare Marco dalla sua vita può avere due motivazioni:
1° per troppo amore ha voluto liberare Marco dal vincolo verso se stessa con i condizionamenti che ne sarebbero derivati;
2° per liberarsi dal dubbio che Marco sarebbe rimasto vincolato a lei per senso di pietà.
Personalmete propendo per la prima soluzione.
Giuseppe sono molto spiacente che i tuoi commenti non si siano inseriti subito, c’è un problema tecnico; Enrico ci sta lavorando, mi ha promesso che l’avrebbe sistemato
Commenti abilitati terzo tentativo di inserire un commenti: i primi due non sono andati a buon fine PERCHE`???
Non possiamo sapere quali pensieri siano passati nella mente di Gabriella nel momento in cui, presa coscienza della sua malattia e conoscendone i risvolti nel doversi rapportare nel contesto sociale delle “persone sane”, abbia voluto evitare di vivere con il sospetto del senso di pietà da parte di Marco nei suoi confronti oppure, proprio per grande amore e con suo grande dolore, abbia volutamente mentito per restituire Marco ad una vita cosiddetta “normale”. Personalmente penso che possa essere più realistica la seconda ipotesi.
Un profondo grazie a Paola e Adso per averci proposto la storia.
buongiorno il tuo racconto se pur lungo sono riuscita a leggerlo
complimenti lo trovato accattivante diciamo che forse gabriella avrebbe dovuto dire cosi decidevano insieme il da farsi ah l’amore..
Cerco di capire quali siano stati i pensieri nella mente di Gabriella nel momento in cui ha preso coscenza della sua situazione di malata senza speranza. In quel momento è stata assalita dai dubbi di come gli altri si sarebbero potuti rapportare con lei. Ha respinto Marco per amore per non volerlo legare ad una vita di sofferenza? oppure ha respinto Marco perché non avrebbe potuto accettare la sua pietà?.
Non ho la risposta giusta ma penso che Gabriella, non accettando sè stessa si è trovata in una situazione di avvilente sconforto e abbia voluto isolarsi dal resto del mondo per non essere di peso a nessuno.
Non è facile commentare il comportamento di Gabriella, bisognerebbe tornare ai quei tempi, per il tipo di malattia e per la paura che, solo il nome, creava nella gente.
Quello che io credo di aver capito, dalla lettura, è che a volte l’amore può essere tanto grande, da rinunciarvi pur di rendere felice e libera la persona che si ama.
Gabriella sapeva, come bene spiegava Elena all’amico di Marco, che avrebbe sempre avuto paura di leggere pietà negli occhi di Marco, sapeva anche che non avrebbe potuto parlargli normalmente e da sola, perché lui avrebbe tentato di tutto per convincerla, così ha aspettato il momento opportuno, accompagnata dal “biondino”, per rendere la sua messa in scena , ancora più credibile, ma non è dato a noi di sapere, quanta disperazione fosse passata nel suo cuore, seppure sostenuta nella nuova vita da un nuovo compagno.
Naturalmente questa è la mia personale interpretazione lettura come sempre coinvolgente ..grazie Adso
Non sono d’accordo col comportamento della ragazza, ma lo capisco. La gravità del male, il contesto sociale e il periodo in cui è ambientata la storia, condizionavano, in maniera determinante la scelte di persone come Gabriella! Anch’io non avrei saputo accettare atteggiamenti oppure sguardi di paura e di commiserazione, ai quali erano purtroppo sottoposti allora i malati di “tbc”. Il timore di leggere sul volto di Marco anche il minimo cambiamento, avrebbe portato la ragazza ad una sofferenza ancora maggiore di quella che poteva darle la malattia….povero Marco, però….. il suo dolore mi ha commossa!
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Ci ho pensato molto ma non riesco a dire se sono d’accordo o no con il comportamento della ragazza. Spesso, la malattia rende molto egoisti e si pensa di avere diritto a tutto, anche a decidere quali sentimenti gli altri devono provare per noi. Ma è la malattia….e forse questo giustifica tutto….non so. Bravo come sempre Adso, questa è l’unica sicurezza che mi sento di esprimere.
Alfred….molto interessante il tuo link, grazie.
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Nella colonia marina di Bergeggi (SV ) c’erano diversi malati allora.
Ai nostri occhi di bambini non apparivano diversi ma qualcuno insinuava in noi un’aria di mistero, di pericolo, la parola tubercolosi si doveva pronunciare quasi sottovoce.
Ce n’era uno sempre appoggiato al cancello dove si stagliava la doppia croce, simbolo appunto di un sanatorio.
Era magrissino e gli occhi sembrava gli uscissero dalle orbite.
Ci sorrideva quando passavamo a due a due, in fila indiana, capellino in testa e lo zainetto di tela ruvida e attraversavamo il concello di ritorno dalla spiaggia.
Erano gli anni ’50 e la terribile malattia colpiva ancora nonostante le bonifiche delle paludi e i tentativi di istruire la popolazione ad una miglioore igiene personale.
In quegli anni i figli dei lavoratori potevano andare in colonia a spese dell’azienda.
Ancora oggi mi chiedo che ci facevamo noi bambini sani in un sanatorio o che ci facevano dei poveri ammalati di tbc in una colonia per bambini!
Un interessante link per chi volesse approffondire:
http://www.lungomarecastiglion.....scismo.htm
Credo che se fossi stata al posto di Gabriella probabilmente avrei reagito come lei ma se fossi stata al posto di Marco non le avrei permesso di “uccidere” un grande sentimento. Sono fermamente convinta che se l’amore è un VERO AMORE, può sopportare qualunque prova, per quanto dura possa essere e SOLO lui può salvarti dalle malattie, anche le più terribili. Chi ama totalmente e incondizionatamente non potrà mai confondere la pietà col sentimento. Ma bisogna amare a trecentosessanta gradi però, ed è forse questa la parte più difficile.
Zio Enrico(fratello di mio padre)e zia Vanda si sono conosciuti in sanatorio,erano tutti e due molto giovani e tutti e due malati di tubercolosi.Vi parlo degli anni 50 quando questa malattia si teneva nascosta,ma loro no,loro sono andati avanti come treni,si sono sposati,hanno avuto quattro figli tutti in perfetta salute,si sono amati,lo si leggeva nei loro occhi.Credo ce’ l’abbiano messa tutta per sconfiggere la malattia…….e cè l’hanno fatta
E’ un racconto difficile, che si legge con interesse, ansia e dolore. Sconcertante, e fa riflettere. Sulla malattia e su come la la si interpreta e la si fronteggia. La richiesta di non tornare da parte della ragazza è un estremo atto d’amore, penso. Ma strazia il cuore. Niente parole, però, nel tumulto dei sentimenti che si agitano come un mare in tempesta.
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SI ERA NEL MESE DI SETTEMBRE 1945,IL GIORNO NON LO RICORDO .SO SOLTANTO CHE SI ERA ALL’INCIRCA META’ MATTINATA . C’ERA GRAN FOLLA PER LE STRADE, STAVANO PASSANDO I PARTIGIANI DANDO LA CACCIA AGLI ULTIMI FASCISTI RIMASTI !PASSAVANO A PIEDI PASSAVANO SUI CAMIONCINI E CANTAVANO,CANTAVANO CANZONI DI GUERRA, CANZONI DI SOFFERENZA : SOFFIA IL VENTO SOFFIA LA BUFERA SCARPE ROTTE EPPUR BISOGNA ANDAR . SI SENTIVA QUALCHE SPARO DI QUA’ E DI LA’.I CECCHINI !! AD UN TRATTO DAL MIO BALCONE VIDI GENTE METTERSI LE MANI IN TESTA TRA I CAPELLI !URLAVANO DI DISPERAZIONE !!SCESI E LO VIDI ! IN UNA POZZA DI SANGUE , COLPITO DA UN CECCHINO ,GIACEVA SENZA VITA IL MIO COMPAGNO DI CLASSE !!FUGGII CON LE LACRIME AGLI OCCHI , IL MIO CARO AMICO ERA STATO UCCISO !!UCCISO !!ANCORA OGGI LO PENSO E LO RICORDO !! UCCISO !!
giA IN POESIE ho letto dei tuoi scritti, hanno il sapore del reale con una fantasia semplice eben descritta.
Il tuo racconto si legge tutto dun fiato è scorevole, non annoia anzi non vedi l’ora di arrivare alla fine sperando come sempre il lieto fine.
Ma quello che tu ci fai conoscere è una realtà che io conosco molto bene avendo vissuto per anni lavorando negli ospedali con malati terminali. Si la tbc allora era considerata come una malatia terminale,e molto spesso le persone affette dividevano la vita in due prima edopo perchè anche se guarite per la gente erano sempre contaggiose.