Chi di noi, amici Eldyani, apprendendo dell’accendersi di un nuovo focolaio di guerra, o di una guerra in piena regola, dietro la spinta emotiva dell’ “appartenenza” , ideologica o religiosa, non ha mai avuto espressioni di “partigianeria” per una o l’altra parte in conflitto? Forse un po’ tutti l’abbiamo fatto, dimenticando che i conflitti tra popoli, o all’interno dello stesso Paese, devono sottostare a norme di diritto Costituzionale e di diritto internazionale, la cui relazione è indissolubile; senza dimenticare la tutela della dignità dell’uomo, di qualsiasi uomo. Per questo motivo mi è piaciuto dedicarmi ad una ricerca, i cui risultati sono riportati nel seguente, modesto saggio, col mero scopo di contribuire all’educazione civica e democratica di chi spesso è portato ad esprimere giudizi giustificati soltanto da emozioni contingenti e/o “di parte”.
Ci avviamo speditamente verso il terzo millennio ed il mondo si ritrova inciso e lacerato da tante, gravi, multiformi violenze.
Divampano conflitti armati, in più Continenti. E tragiche e quotidiane sono le immagini di eventi bellici, con le loro sequenze di morte, distruzioni, sofferenze.
Azioni di guerra e di guerriglia infieriscono, anche in questi momenti, in molti Paesi, artigliando, indifferentemente, combattenti e popolazioni inermi. Ed un terrorismo spietato va dispiegando, senza apparenti giustificazioni, efferatezze, senza confini. Sussistono, così, piaghe dolorose di conflittualità violente e diffuse in ambito internazionale ed intra-statuale.
Un quadro inquietante, in quest’inizio livido e turbato di XXI secolo. Un contesto, che segue, ahimè, ad altro secolo – il XX – drammaticamente marchiato, a sua volta e nell’intero suo arco, da terribili esperienze di guerre, rivolgimenti, genocidi, “pulizie etniche”, crimini terroristici, con milioni di vittime e, via via, proteso ad armamenti (convenzionali, termonucleari, chimici, batteriologici) viepiù distruttivi e funzionali alla minacciata possibilità di “guerre totali”, di immani olocausti.
Tali, dunque, l’oggi ed il passato; osservati nel prisma fattuale del loro tessuto di sanguinosi conflitti, v’è forse in essi la riprova per l’umanità, d’un destino irreversibile di pervasive violenze e, per ciò stesso, dell’irrealizzabilità dell’aspirazione ad un’autentica, universale pace? E’ questo, in verità, un interrogativo pregiudiziale e sfaccettato, al quale ben potrebbe correlarsi un ampio discorso o dibattito.
Ciò, peraltro, trascenderebbe i limiti della riflessione proposta in questa rubrica: una riflessione articolata, ma essenziale nel suo svolgimento e sfociante nella motivata riaffermazione che il cammino verso la pace è lungo ed impervio, ma praticabile e doveroso per tutti.
Homo homini lupus. In questo assunto filosofico, antico e lapidario, che ha valenza sociologica, si compendia la visione antropologica di chi percepisce, descrive e teorizza la natura umana come aggressiva e vede operante nell’uomo – in ogni tempo e spazio – istinti e disegni violenti, innate pulsioni belliche.
Condizionato qual è da bisogni e da congenita inclinazione a ricercarne comunque l’appagamento, l’uomo, si sostiene, è portatore di una vocazione primordiale alla lotta, anche cruenta. Sicché la guerra, anch’essa, scaturisce necessariamente da una siffatta, impositiva propensione umana e, come tale, appare non eradicabile dal terreno della storia.
Non è questa, peraltro, nella sua assolutezza e rigidità deterministica, una “lettura” e concettualizzazione condivisibile delle vicende umane.
Ricondurre la violenza alla naturalità necessitante dell’essere umano contraddice l’esperienza di quanti, singoli e comunità, optano di vivere e concretizzare forma di esistenza non violenta. La guerra non insorge nel mondo per meccanismi irrefrenabili ed immodificabili; anch’essa passa attraverso la libertà umana; anch’essa ha i volti ed i nomi di chi la sceglie e ne diventa responsabile.
Vero è che l’animo umano sembra inquinato da una sorta di assuefazione alle armi. Ma la strada della violenza non è per l’uomo la sola ed ineludibile; nel labirinto della vita, la via della pace non gli è preclusa. La pace è dunque possibile. E, in quanto possibile e quale valore prezioso, essa va promossa, realizzata, salvaguardata.
Che nella scala dei valori abbia posizione eminente la pace e costituisca per l’umanità un bene anelato è oggi indubbio e reiteratamente sottolineato da tante e varie parti e sedi.
Così, peraltro, non è sempre stato nei secoli scorsi. Basti ricordare quanto scritto da G.W. Hegel: “…..è la guerra che mantiene la salute morale dei popoli……; come l’agitarsi dei venti preserva i laghi dalla putredine cui li ridurrebbe una quiete durevole, così vi ridurrebbe i popoli una pace duratura….”
Affermazioni, queste, contestabili e contestate, ma tracimate in successivi indirizzi ideologico-filosofici e nel Novecento enfatizzate da infausti epigoni e tradotte sul piano politico in spinte militaristiche ed in aberranti glorificazioni delle armi.
Lo stesso Novecento ha, però, verificato, di tutto ciò e nel concreto, la tragica insensatezza ed ha maturato, per contro, l’attuale comune considerazione della pace quale valore vero. Un valore (un bene) che si configura antitetico ad ogni violenza e si esprime per la non belligeranza, per l’assenza di guerra.
Guerra che di per sé ed in linea di principio costituisce, a sua volta, un disvalore e, nel contempo, un illecito (un “flagello” la definisce il Preambolo della Carta delle Nazioni Unite).
A connotare negativamente e di antigiuridicità l’uso offensivo della forza armata sono, d’altro canto, gli enunciati delle Carte costituzionali di non pochi Stati. Tra essi l’Italia, con l’art.11 della Costituzione, per il quale il nostro Paese “ripudia la guerra come strumento di offesa……e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace….; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Disposizione, questa, garantista, esemplare ed eloquente, nel rifiuto d’ogni opzione bellicistica travalicante la mera legittima difesa e nella scelta di base della pace come valore-guida.
Un valore troppo spesso disatteso e violato. Un valore, per di più, insidiato e minato dall’ ingiustizia.
La pace poggia sul rispetto delle persone e dei popoli e si alimenta dell’effettivo e praticato riconoscimento, intrastatuale e nella comunità internazionale, dei “diritti umani”: diritti fondamentali, spettanti all’uomo in quanto tale, insopprimibili ed indisponibili, che ne riflettono l’essenziale dignità, individuale e sociale.
Per converso il misconoscimento di tali diritti – e così, precipuamente, l’affermarsi di dispotismi oppressivi, di discriminazioni, di sfruttamento dei deboli e di loro mortificazione nel sottosviluppo – intacca le radici della pace, la inquina e la destabilizza.
Il giogo dell’ingiustizia non è, infatti, sopportabile indefinitivamente e chi lo subisce – individuo, popolo o Stato – è spinto a scuoterlo, a rivoltarsi, anche e spesso con approdo alla violenza ed alle armi.
La pace, si è detto, è un valore immenso, che si vorrebbe per sé, per la propria gente, per il mondo intero. Ma quali le vie e le tecniche di costruzione della pace? Come perseguirla e consolidarla nel tempo e nello spazio?
Non ho, certamente, la pretesa di censire e qui dettagliare l’intera gamma delle ipotizzabili modalità per volgere al concretizzarsi d’un tale obiettivo. Rilevo, però, un trittico di percorsi e strumenti (che a me sembrano essenziali e che mi piace riportare), che si dispongono su un triplice piano:
° quello del diritto
° quello della giustizia
° quello dell’educazione alla pace
“Peace through law” – pace attraverso il diritto – è il titolo di un’opera di Hans Kelsen, magistrale e lungimirante nell’elaborazione progettuale di un sistema normativo ed istituzionale più avanzato e meglio rispondente alle finalità di pace, specie nelle relazioni interstatuali. Un sistema siffatto – opportunamente ridefinito ed adeguato ai nuovi scenari di oggi e di domani – è auspicabile e diffusamente auspicato.
Lo ha fortemente sostenuto l’allora Segretario delle Nazioni Unite, Kofi Annan, nel presentare, il 21 marzo 2005, all’Assemblea Generale una serie di proposta normative e di riforma dell’ONU. Proposte articolate e tese, nell’insieme:
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a ribadire il generalizzato e cogente dovere per gli Stati di astenersi dal ricorso alla forza, salvo che per legittima autotutela e sino a che il Consiglio di Sicurezza – nell’esercizio delle proprie esclusive competenze ed attenendosi a regole e criteri all’uopo prefissati e/o in via di determinazione – abbia ad intraprendere e/o demandare le azioni, occorrenti per fronteggiare le riscontrate, pendenti minacce alla pace, anche e specificamente di matrice terroristica;
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ad incentivare, per quanto possibile, un disarmo, graduale e controllato, promuovendo, nel contempo, l’adozione di misure maggiormente restrittive della produzione e del commercio di armi, fermi restando il fondamentale Trattato di non proliferazione nucleare (TNP) e la messa al bando delle armi di distruzione di massa;
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a rimodulare struttura e funzioni dell’ONU, in particolare del Consiglio di Sicurezza, per accrescerne la rappresentatività, valorizzarne l’autorità ed il ruolo centrale nell’assetto ordinamentale della comunità internazionale, dotarlo di maggiori poteri vincolanti e sanzionatori e rafforzarne gli strumenti coercitivi, assegnargli più risorse e renderlo più efficiente ed incisivo nell’espletamento dei compiti e dei poteri ad esso affidati e riservati.
Il tutto, anche nell’intento di contrastare il deficit di legalità insito in tante azioni militari non condotte dalle Nazioni Unite o ad esse riconducibili, così come abbiamo visto anche di recente sullo scenario internazionale.
Ai fini della pace non è, peraltro, solo questo deficit di legalità a dover essere arginato e compresso.
Posto che ampie e molteplici si palesano le iniquità involgenti persone e Paesi e che in ogni pesante deficit di giustizia si annida, latente, il germe della violenza, non v’è dubbio che l’edificazione della pace, per poter essere solida e durevole, deve coniugarsi con un impegno per la giustizia e, così, per il superamento, per quanto possibile, delle patologiche condizioni di vita, che attanagliano uomini e Nazioni in tante parti del mondo.
Di qui, tra l’altro, l’esigenza, non trascurabile, di strategie di sostegno socio-economico e di cooperazione internazionale per lo sviluppo: cooperazione da attuarsi nelle forme di volta in volta più appropriate e, in ogni caso, nel rispetto della libertà e dell’identità culturale dei Paesi beneficiari e senza prevaricazioni ideologiche o arroganti forzature politiche; sostegno tanto più necessario nel contesto di un processo di globalizzazione particolarmente sospinto dai grandi gruppi multinazionali e dagli Stati in grado di raccoglierne i vantaggi, ma non scevro di effetti pregiudizievoli per i Paesi più deboli.
Di qui, ancora, l’urgenza che si fronteggino i nodi critici dell’odierna globalizzazione, ineguale e sbilanciata, e si operi per renderla meno asimmetrica, più equa ed inclusiva, dando anche congruo e forte rilievo alla “Corporate Social Responsibility”. Responsabilità, questa, comportante la doverosa considerazione dei legittimi interessi e delle ragionevoli aspettative dell’ampio spettro di “stakeolder” variamente coinvolti o lambiti dall’attività d’impresa. Responsabilità funzionale ad uno “sviluppo sostenibile”, più consono all’uomo , per ciò stesso, fattore di pace.
Pace, va aggiunto, per la cui conquista ed al cui consolidamento ben s’addice, quale ulteriore fattore, un’adeguata opera educativa.
Occorre, abbiamo detto, educare se stessi e gli altri alla pace; bisogna conoscerla, volerla e farla amare per poterla esprimere ed imprimere nella concretezza della storia. Non si tratta di declamarla, ma di interiorizzarla e testimoniarla, concorrendo alla formazione d’una coscienza collettiva della dignità dell’uomo – di ogni uomo – e dei diritti e dei doveri, che sono di tutti e di ciascuno e riflettono valori umani universali (in primis la vita), la cui salvaguardia sta, eminentemente, nella pace e per la quale sono essenziali e da coltivare anche la disponibilità e la capacità di dialogo, nel rispetto reciproco. Dialogo interpersonale, intersociale, interculturale, interreligioso, per comporre le tensioni, per costruire “ponti” di pace e non “muri” di divisione, per volgere ad una riconciliata e feconda alleanza tra le civiltà.
Tutto ciò, mi sia consentito sottolinearlo, non per sterile autocompiacimento, ma per trarre motivo di impegno per il domani.
Vogliamo la pace vera, non tregua o precario sopimento di irrinunciata belligeranza.
Vogliamo pace autentica, non mera passività a fronte della prepotenza e dell’iniquità che sfregiano i diritti naturali delle persone e delle genti.
Vogliamo pace che scaturisca dall’incondizionato e praticato riconoscimento della centralità e dignità dell’uomo, di ogni uomo.
Pace da edificare nel rispetto dell’ordine giuridico, con attenzione ai bisogni del nostro prossimo e con fattivo sforzo di rimozione degli ostacoli, fra essi l’ignoranza, che si frappongono alla miglior comprensione tra uomini e Nazioni.
La sfida della pace può e deve essere vinta.
“Il bulbo della speranza” (di questa speranza)“ora occultato sotto il suolo/ ingombro di macerie, non muoia / in attesa di fiorire in primavera”.
Sono versi di Mario Luzi, che affiorano nella memoria e ben possono essere qui richiamati e riproposti, per tutti, a conclusivo suggello.
fgiordano 2 maggio 2009
Penso che l’anelito di pace sia legato più alla religione, alla morale, che al diritto, che presuppone sempre l’esistenza di interessi di organizzazioni, stati, imprese, ecc. Le guerre, peraltro, si legano ad istinti, appunto bellicosi (dal latino bellum) degli uomini (non delle donne). Possiamo farci tutte le raccomandazioni possibili ma il superamento della guerra è di altri mondi, sopraterreni. Peraltro, non tutte le religioni raccomandano bontà e solidarietà: ci sono quelle che si fanno un vanto nel distruggere l’infedele. Di fronte alle guerre, a tutte le guerre, prende un moto di scoramento profondo.