Giulio ci regala un altro dei suoi racconti di vita vissuta: è un racconto vero, autobiografico e ci riporta ad un epoca in cui, anche se non si condividevano le idee della parte avversaria, si portava rispetto e c’era pacifica convivenza.  Lo spaccato di vita di una piccola comunità, dove tutti si conoscevano e molto bene, ce la dice lunga sull’Italia di allora e su un periodo molto più povero dell’attuale, ma con forti e decisi ideali. Il prete di cui si parla divenne un grande sociologo, famoso in Italia e altrove.

LA  CAMICIA  ROSSA
Non posso accettare che gli anni cancellino il ricordo delle persone care. E così, parlarne, è come se mi riavvicinassi a quella gente; un doveroso pensiero  e un atto di affetto verso la loro memoria. No! Non voglio  che le fronde dei cipressi nascondano per sempre la loro immagine. Anche le persone semplici lasciano una traccia, un segno più o meno marcato in questa vita terrena. Solo che è l’orma della semplicità e della  sofferenza. Così passa inosservato e subito scordato. Eppure, tutti sappiamo che hanno donato  la vita al lavoro, alla famiglia e, soprattutto, gli anni più belli della  loro gioventù  alla Patria .
Dimenticati anche da quel partito politico nel quale credevano e nel quale riponevano tutta la loro fiducia. Sì! Il partito, il P.C.I. era l’ancora a cui aggrapparsi soprattutto nei momenti di lotta, l’unità, la forza. Spesso si ritrovavano sotto quella bandiera rossa ch’era il simbolo dell’unione.

Renato Guttuso I funerali di Togliatti

Anche il cuscino che copriva la bara era rosso. Questo suo desiderio l’aveva lasciato scritto  alla moglie, e lo ripeteva spesso ai compagni: < Quando mi porterete ai cipressi , che almeno il cuscino sia rosso >
Nel suo vestire appariva sempre qualcosa di rosso, la cravatta nei giorni di festa, un fazzoletto rosso al collo, i calzini rossi, la camicia…. Aldilà del lato esteriore, rosso era il suo animo, il simbolo che lo avvicinava al partito comunista italiano.
Aveva però verso la chiesa molto rispetto e per coloro che credevano in Dio. Non sopportava però le  <ciance dei corvi>.  Così chiamava i preti . < Parassiti> li definiva. E la frase che spesso mi ritorna alla mente e che diceva convinto, era questa:
< I preti ricordalo, vendono del fumo> Ero  ragazzino, non capivo cosa volesse dire e fra l’altro, ero chierichetto convinto. Cantavo i salmi  in latino come il prete. Anche la notte mi svegliavo per studiare i canti del Vespro della domenica. E tutto quello che diceva lo zio, si! Era mio zio questo grand’Uomo, non lo capivo, non l’accettavo. Anche perché, dall’altra parte c’era il prete che mi diceva : <Non l’ascoltare lo zio, tanto lui andrà all’inferno ! >
Dicevo queste cose a mia madre e lei risentita brontolava: <Ma lo zio e i cavatori ci vanno tutti i giorni all’inferno>
E così mi trovavo fra l’incudine e il martello, ero troppo piccolo per prendere delle decisioni.
Continuavo a fare il chierichetto ma c’era in me qualcosa  che mi avvicinava più alla dottrina dello zio che a quella del prete. Una cosa però che già a quell’età capivo e che vedevo: da una parte la povertà, la fame, la sofferenza. Dall’altra, anche se era il prete di una piccola comunità, in canonica non mancava nulla. E un altro particolare: nella cucina del prete c’era sempre un buon profumo; in quella dello zio o nella mia, l’unico odore era quello di un forcone di cipolle attaccate al travicello al lato della cappa del  camino. Oppure, quando andava bene, un laveggio di brodo fatto con la gallina che da qualche giorno aveva la cresta nera. Ma era buono, anzi: buonissimo.
Quanto soffriva lo zio a vedermi andare in chiesa, lo dicevano l’espressione dei suoi occhi. Aveva paura che mi <facessi abbindolare dalle chiacchiere dei corvi>  questo mi ripeteva .
<Con le chiacchiere che s’inventano, incantano la gente. Facci caso: vedrai come stanno tutti a bocca aperta ad ascoltare il tuo prete .>
Ed io, durante l’omelia, osservavo i fedeli. Qualcuno aveva gli occhi come un allocco, altri sbadigliavano, qualche vecchietta dormicchiava. Però, c’era qualcuno, come aveva detto lo zio, che stava con la bocca aperta ad ascoltare il prete. E, finita la messa, correvo dallo zio a riferire queste cose; lui sorridendo annuiva.
L’Unico bar del paese, era proprio davanti alla chiesa: erano divisi da una piccola piazza, il  vociare degli uomini arrivava in chiesa, i canti dei fedeli penetravano nel bar. Fra il fumo delle sigarette e bicchieri di vino, lo zio teneva lezione di politica, era il primo a incominciare l’ultimo a smettere. Anche durante la partita a carte trovava il modo di emergere con la sua filosofia e, quando il caso voleva che una briscoletta vincesse la partita, sbottava convinto : <Avete visto? A volte i piccoli se ci sanno fare, battono i grandi >
Dall’altra parte il prete faceva i suoi sermoni, e la gente ascoltava. Al bar lo zio teneva i suoi comizi, e la gente ascoltava, io continuavo a fare il chierichetto.

Una maggiore tensione, affiorava con l’avvicinarsi delle votazioni politiche o amministrative. Dall’altare il pastore invitava le pecorelle ad una attenta riflessione:
<Quando sarete nella cabina elettorale, che Dio guidi la vostra mano. Non ascoltate i consigli dei peccatori> E la predica continuava a lungo. Nel bar, lo zio faceva già i conti dei probabili consensi  che il suo partito avrebbe ottenuto. Dalla tasca dello zio, bene in vista, affiorava – L’Unità, l’organo del partito comunista italiano -Qualcuno canticchiava Bandiera Rossa, accompagnato da brindisi di bicchieri di vino, rosso anche quello. E la gioia saliva al massimo; quando  al termine delle votazioni, la Democrazia Cristiana, almeno nel paese,  risultava  sempre sconfitta dal  Partito Comunista Italiano.
Tra il prete e lo zio, vi era un reciproco rispetto: si stimavano a vicenda e discutevano pacatamente, arroccati entrambi alla propria bandiera; io incominciavo sempre di più ad avvicinarmi alla “religione” dello zio. Spesso voleva che la domenica  andassi a mangiare a casa sua. Dopo mangiato ci sedevamo fuori sulle scale, e mentre si prillava una sigaretta mi raccontava brevi frammenti della sua vita. Il viso si corrugava e gli occhi fissavano un punto imprecisato:
<Undici anni di guerra mi hanno fatto fare. Quando potevo tornare a casa, mi schierai con i partigiani dell’Albania. E quando la morte la sentivo vicina per lo scoppiare delle bombe e il fischio delle pallottole, anch’io pregavo quello lassù, ma non gli dicevo le chiacchiere imparate a memoria dal tu’ prete. Gli raccontavo le mie cose e, sono sicuro che mi ha sempre ascoltato. Lui, lo sa quando uno è sincero.>
Quando il prete organizzava una festa religiosa portando il santo per le vie del paese, lo zio allestiva la festa dell’Unità. Ed io, aiutavo a pulire i tavoli dei compagni, e a lavare i bicchieri. Lo zio  premeva:
<Non sei buono a staccarti da quel tonacone, guarda le mani del tu’ prete e poi guarda quelle del tu’ babbo, dopo mi dici da che parte stai >
Le mani del prete erano lisce, affusolate, morbide. Quelle del babbo e dello zio e di tutti i cavatori, erano ruvide, piene di calli, setole profonde. Anche le loro facce erano scavate da  rughe, eppure,  più o meno avevano l’età del prete. I loro occhi sempre infossati e tristi, solamente quando alzavano il gomito al bar, brillavano un po’. Invece la faccia del prete era di un colore roseo, sempre ben rasato e pulito. Lo zio e gli altri uomini, portavano sempre le toppe al culo dei pantaloni, e sempre rammendati alla meglio. Ed io mi allontanavo dal “tonacone” e, la voce solista del coro della chiesa , ch’era la mia, ogni tanto mancava.


Poi il prete se ne andò lasciando il paese e i fedeli. Mi ero affezionato a quell’uomo, per me era un Corvo simpatico; e anche lui credo che mi volesse bene. E, da quel giorno che ci salutammo diventai ateo.
Potete immaginare la gioia dei compagni, il rivale era sparito. Mi dissero che videro lo zio salutare e abbracciare il prete. Si stimavano entrambi. Solo che si trovavano su due sponde diverse, ma entrambi, predicavano parole di amore, di unità, di fratellanza  fra i popoli. Ogni tanto il “tonacone” viene a trovare la sua gente, ora però, porta in testa un cappellino rosso. Lo salutai con affetto, e notando il cappello, gli dissi se era comunista. Mi dette una sonora sberla in testa .
Un giorno lo zio, mi regalò una camicia rossa con dei quadrettini neri, la posò sul tavolo e disse : <Provatela è tua,vedi, è molto morbida, è di peloncino>  Quella camicia la portai per molto tempo, per me era un simbolo, una decorazione, e se mia madre non l’avesse buttata via, l’avrei ancora in qualche cassetto dell’armadio.


Il giorno del funerale  c’era tanta gente, e soprattutto un funerale senza prete, così voleva lui. Figuriamoci se l’avessero portato in chiesa, si sarebbe sicuramente vendicato verso i compagni: la notte sarebbe apparso avvolto in una  bandiera  rossa brandendo falce e martello. Un corteo lunghissimo si snodava per le vie del paese, la Banda suonò poche marce funebri: i muri delle case vibravano al suono dell’Inno dei Lavoratori, dell’Internazionale, ma soprattutto salivano verso il cielo le note di Bandiera Rossa. All’ingresso del Camposanto la Banda si schierò al passare della bara, suonando ancora Bandiera Rossa, mentre le bandiere, rosse anche quelle, sventolavano accarezzando un’infinità di pugni chiusi, tesi verso il feretro per l’ultimo saluto.


Le ombre calavano ormai sul paese, solo le cime dei monti erano ancora tinte di un rosso porpora. I cipressi svettavano silenti nel cielo, neri come sentinelle, guardiani dei ricordi.

Giulio.lu      19 febbraio 2010

23 Commenti a “LA CAMICIA ROSSA”

  1. Giulio Salvatori scrive:

    Grazie Sorgigio, mi mancavi. Ora che cala il sipario sulla -Camicia Rossa- una riflessione :Scrivere qualcosa di prettamente personale, o come suol dire :autobiografico, è cosa difficile . E maggiormante difficile perchè,a differenza di quando presenti un tuo libro,in quella sala hai davanti una platea alla quale rispondi subito a seconda delle domande che ti vengono poste. Qui no !E’ imposibile;ma credetemi ,qui in Eldy, non è semplice come appare. Si corre il rischio di essere fraintesi, di dare la sensazione di voler salire in cattedra o di dare nozioni di letteratura.Niente di tutto questo.I miei testi , nascono dalla semplicità, e soprattutto, da fatti e personaggi reali , che si sono radicati tutti, dentro di me. Grazie a tutti perchè mi avete capito, e soprattutto, non ha causato dibattiti politici.

  2. sorgigio scrive:

    da toscano a toscano, hanno detto tutto gli altri amici, voglio solo unirmi al coro, BRAVO BRAVO

  3. Giulio Salvatori scrive:

    Pino e Franco, grazie. Si ! Avete ragione , sembra un secolo, eppure erano i “Miei Cavatori ” .Uomini solidi , di buoni principi, e la loro parola era un contratto.Pane al pane, vino al vino .Il loro motto era : – Le chiacchere ‘n fan farina -.Le chiachere non servono a nulla . Li ricordo sempre con un piacevole orgoglio. Grazie ancora a tutti coloro che mi hanno letto e commentato .

  4. Franco Muzzioli scrive:

    Bel racconto Giulio…….sembra però che siano passati mille anni !

  5. pino1.sa scrive:

    Giulio, sei riuscito ancora una volta ad esprimere con un linguaggio semplice e coinvolgente un vissuto di un epoca ormai lontana dalla nostra realtà. Stai attento però che a lungo andare qua in eldy ti appelleranno come: “BENEDETTO TOSCANO”

  6. rosaria3.na scrive:

    Mancavo io, Giulio, ma sai il perchè del mio ritardo. Comunque eccomi qui solo x dirti ancora una volta (l’ennesima) che sei davvero BRAVO e riesci sempre a coinvolgerci tutti nella lettura dei tuoi racconti, sempre avvincenti e narrati con molto buon gusto e semplicità. Ad maiora, Giulio!!!!!!

  7. Giulio Salvatori scrive:

    Flavio 46.Grazie, troppo buono.Non mi merito tanti elogi.Non ho fatto niente di speciale:Ho scattato alcune foto, l’ho sviluppate con l’aiuto della memoria e dei ricordi …e l’ho esposte al Vostro attento “giudizio”.Un ringraziamento a Paola che ha saputo introdurVi nel mio narrare con splendide pitture e foto che ben si amalgano con il testo .

  8. flavio.46 scrive:

    Qualche tempo fa in un mio commento definii “vera lezione di vita” un tuo commovente racconto. Oggi devo ripetermi e affermare che ho letto con grande commozione questo tuo nuovo pezzo che mostra prova certa dell’esistenza di persone che hanno praticato dignità ad oltranza e che oggi non vengono ricordati come si dovrebbe. Hai saputo descrivere con romantica emozione i sentimenti e la disponibilità di quelle persone che hanno lottato per il bene comune sempre con l’obiettivo di andare in soccorso delle classi meno fortunate.
    Persone che uscivano da una storia che non si studiava nella scuola deiu miei tempi ma che più tardi ci ha parlato di masse operaie e contadine prive di qualsiasi libertà che vivevano in condizioni miserabili e primitive, che ci ha narrato del “68” quando operai e studenti dimostravano uniti per l’emancipazione della società.
    E oggi sembra che tutti se ne siano dimenticati. Colgo allora l’occasione, in questo tempo di caduta etica e morale, per ricordare una famosa frase del grande “Che” :
    “La durezza di questi tempi non ci deve far perdere la tenerezza dei nostri cuori”.
    Tu con il tuo sei riuscito a penetrare l’anima delle persone che come i protagonisti del tuo racconto hanno sempre affrontato la vita per il bene di coloro di cui si diceva poc’anzi.
    Scusa il ritardo del mio commento, ma entro poco e solo ieri sera tardi ho avuto occasione di leggerti.
    Consentimi di dirti che sei molto bravo.
    Ciao, alla prossima.

  9. Giulio Salvatori scrive:

    Grazie veramente ancora una volta a tutti voi.Vi confesso che avevo tremendamente paura di essere frainteso. Il Mio, non voleva assolutamente essere -Un comizio politico – Caspita, mariannacane!Vi ho sentiti immensamente vicini, fra queste case di di “sasso morto”.

  10. carlo9.RM scrive:

    ciao Giulio,un racconto ”verace”come era verace l’attacamento al colore ideale che ognuno credeva,poteva essere rosso, bianco, nero,per qel colore si lottava anima e corpo, come siamo cambiati oggi ci leghiamo a ”facce” e ”cognomi”: Come sarebbe bello ritrovare la tua camicia rossa.non solo come ricordo ,ma come ideale.

  11. domenico.rc scrive:

    Commenti abilitati Complimenti “Maledetto Toscano”,ancora una volta mi hai fatto commuovere con questo bellissimo racconto ,hai veramente saputo dipingere cosi’ bene i personaggi, da riportarmi indietro nel tempo ,quando:. giovanotto, andavo casa per casa con i miei coetanei ,la domenica mattina,portando la copia dell’unità omaggio Hai messo in risalto ,la realtà di un periodo caratterizzato da grande miseria ,ma ricchissimo di veri valori, di sani principi e di un forte richiamo agli ideali politici ciao alla prossima ……..grazie

  12. domenico scrive:

    Tutte le medaglie sono belle sul davanti,alcune bellissime,però c’è anche il rovescio, della medaglia.

  13. alba morsilli scrive:

    Giulio il tuo frammento è storia del nostro passato, dove noi credevamo veramente in qualcosa che poi come si è visto tutto è statouna bolla di sapone.
    la semplicitàdella vita quotidiana che tu descrivi è pari quasi per tutti noiallora il mondo non correva vertiginosamente.
    le mani di un operaio a distanza di tempo sono sempre callose, a diversità di chi predica bene ma rozzola male.Grazie del tuo ricordo per svegliare in noi dei sentimenti assopiti

  14. galante scrive:

    Una gran bella storia,raccontata con dolcezza e amore.Credo che il tuo racconto, verrà apprezzato da tutti.

  15. giuliano4,rm scrive:

    Commenti abilitati
    Semplicemente bella e……calda.Mi hai fatto ritornare in mente mio padre(ferroviere) che per la sua idea e perchè attaccava le locandine del partito in stazione gli diedero il trasferimento a Cassino che era ancora distrutta!
    Ancora complimenti e……basta così.

  16. Giulio Salvatori scrive:

    Vi ringrazio tutti dei Vostri sentiti commenti e…ricordi.E’ uno spaccato di vita di un piccolo borgo, un pugno di case abbracciate fra loro , con una piccola chiesa e, lo scorrere quotidiano di quel tempo. Io,ragazzino,ero nel mezzo, tutto lì.Non ha niente a che vedere con i personaggi di Guareschi.Ogni luogo ha i suoi personaggi, la sua storia.Con un pò di timore, Vi ho donato un frammento della mia. Grazie per avermi letto.Il solito -Maledetto Toscano

  17. titina.is scrive:

    Giulio, come tu sai, ogni volta che leggo un tuo scritto lo faccio tutto d’un fiato perchè mi affascina il modo che hai di raccontare fatti, persone, luoghi che appartengono al vissuto di molti di noi. Personaggi come quelli da te descritti sono stati un po’ comuni a molti dei nostri borghi, ma tu hai la capacità di rendere unici i personaggi delle tue storie. Mi viene da pensare : chissà come sarebbe contento e soddisfatto il tuo amato zio se ora si vedesse così ben rappresentato dalla tua penna e dal fatto che, mi sembra, tu abbia seguito anche il suo pensiero!

  18. antonio2.li scrive:

    Complimenti a giulio è una storia commovente che ci fa pensare ai valori ,quelli veri che accompagnano la vita di un uomo e restano nei ricordi dei suoi cari. Quante persone nascono vivono e muoiono e dietro di loro non lasciano nulla da ricordare.Quante vite scorrono piatte senza un atto senza un ideale degno di essere ricordato.Sei riuscito a commuovermi Giulio e pensare che pensavo di avere una scorza dura.Grazie compagno.

  19. nadia4.RM scrive:

    Giulio,molto bello il tuo racconto.Sono convinta che se tuo zio e mio padre si fossero conosciuti ,sarebbero stati compagni,ed amici per la pelle.Tu racconti tuo zio,a me è sembrato sentir raccontare mio padre.Voglio raccontarti un piccolo anèddoto.Ero bambina,avro avuto 6 o 7 anni,e la domenica sera i miei genitori usavano cenare all’osteria con tutta la famiglia,(naturalmente la cena si portava da casa gia’ cucinata).Ricordo che c’èrano i tavoli all’aperto ,e in questo spazio c’èra un palco con tanto di microfono ,mio padre mi mise su codesto palco e disse :ora canta le canzoni che io e gli zii ti abbiamo insegnato.Per farla breve ,cantai SU FRATELLI E SU COMPAGNI ,E BANDIERA ROSSA.Mi ha applaudita tutta primavalle,(che sarebbe una borgata romana).Un’altra volta andando in processione con mia madre,(mio padre no,si rifiutava)tutti cantavano (andro’ a vederla un di al cielo o patria mia ,andro’ a veder maria la pace di ogni cuor)io nn conoscendo questo canto di chiesa ,intonai bandiera rossa,mia madre divento’ come un peperoncino,e quando lo seppe mio padre disse:questa è una vera comunista.bene ,forse mi sono dilungata troppo.ancora complimenti Giulio

  20. lieta scrive:

    vero giulio na vicenda vera proprio come vere ci so parsi i film di don camillo che ne rispecchiavvano la vita vera grazie giulio dei tuoi naturali e veri infusi de vita bravo come sempre a dirci le storie così genuinamente intrise di sentimenti veri buoni onesti che rammentiamo con cuore aperto ciao

  21. giovanna3.rm scrive:

    Proprio un bel racconto, Giulio, pieno d’affetto per una persona così particolare, com’era tuo zio.
    Un caro saluto.

  22. lorenzo.rm scrive:

    Due considerazioni.
    Una sullo scritto, sapiente e gradevole.
    L’altra sul contenuto, romantico e “de core” come dicono a Roma.
    Come Paese abbiamo bisogno di tante persone che siano così.

  23. marc52 scrive:

    Commenti abilitati
    Gran bella storia Giulio, raccontata con garbo, è tinta da una vena di nostalgia. Che belli quegli anni! Miserabili per molti, ma… ricchi di dignità, di onestà, di rispetto. Il ricordo di quel galantuomo di tuo zio mi riporta alla mia fanciullezza, dove osservavo interessato e stupito, quel mondo dei grandi. Cominciando a fare le mie prime e piccole considerazioni, ricevendo in cambio dei sani insegnamenti. Uno spaccato di vita, il tuo… racconto, che mi porta a delle analogie con la serie di film di don Camillo e Peppone, tante volte visti e rivisti con piacere alla televisione.

Scrivi un commento
nota:  I COMMENTI DEVONO ESSERE PERTINENTI ALL ARGOMENTO A CUI SI RIFERISCONO E NON DEVONO ESSERE INSULTANTI PER CHI HA SCRITTO L'ARTICOLO O PER UN ALTRO COMMENTATORE