guttuso fichi d'india

Vi lascio questo bel racconto di Leonardo Sciascia
Spero vi piaccia il modo diretto di raccontare le cose, del grande scrittore siciliano.
(i numeri si riferiscono alle note che si trovano alla fine del racconto ed anche alla fine, si trova una piccola biografia dello scrittore, presa dal web)

BUONA LETTURA ED ANCORA BUONA ESTATE

il lungo viaggio 4

IL LUNGO VIAGGIO

Era una notte che pareva fatta apposta, un’oscurità cagliata1 che a muoversi quasi se ne sentiva il peso. E faceva spavento, respiro di quella belva che era il mondo, il suono del mare: un respiro che veniva a spegnersi ai loro piedi. Stavano, con le loro valige di cartone e i loro fagotti, su un tratto di spiaggia pietrosa, riparata da colline, tra Gela e Licata2 ; vi erano arrivati all’imbrunire, ed erano partiti all’alba dai loro paesi; paesi interni, lontani dal mare, aggrumati nell’arida plaga del feudo3 . Qualcuno di loro, era la prima volta che vedeva il mare: e sgomentava4 il pensiero di dover attraversarlo tutto, da quella deserta spiaggia della Sicilia, di notte, ad un’altra deserta spiaggia dell’America, pure di notte. Perché i patti erano questi – Io di notte vi imbarco – aveva detto l’uomo: una specie di commesso  viaggiatore per la parlantina, ma serio e onesto nel volto – e di notte vi sbarco: sulla spiaggia del Nugioirsi5 , vi sbarco; a due passi da Nuovaiorche6 … E chi ha parenti in America, può scrivergli che aspettino alla stazione di Trenton, dodici giorni dopo l’imbarco… Fatevi il conto da voi… Certo, il giorno preciso non posso assicurarvelo: mettiamo che c’è mare grosso, mettiamo che la guardia costiera stia a vigilare… Un giorno più o un giorno meno, non vi fa niente: l’importante è sbarcare in America. L’importante era davvero sbarcare in America: come e quando non aveva poi importanza. Se ai loro parenti arrivavano le lettere, con quegli indirizzi confusi e sgorbi che riuscivano a tracciare sulle buste, sarebbero arrivati anche loro; “chi ha lingua passa il mare”7 , giustamente diceva il proverbio. E avrebbero passato il mare, quel grande mare oscuro; e sarebbero approdati agli stori e alle farme8 dell’America, all’affetto dei loro fratelli zii nipoti cugini, alle calde ricche abbondanti case, alle automobili grandi come case. Duecentocinquantamila lire: metà alla partenza, metà all’arrivo. Le tenevano, a modo di scapolari9 , tra la pelle e la camicia. Avevano venduto tutto quello che avevano da vendere, per racimolarle: la casa terragna10 il mulo l’asino le provviste dell’annata il canterano le coltri. I più furbi avevano fatto ricorso agli usurai, con la segreta intenzione di fregarli; una volta almeno, dopo anni che ne subivano angaria11: e ne aveva soddisfazione, al pensiero della faccia che avrebbero fatta nell’apprendere la notizia. “Vieni a cercarmi in America, sanguisuga: magari ti ridò i tuoi soldi, ma senza interesse, se ti riesce di trovarmi”. Il sogno dell’America traboccava di dollari: non più, il denaro, custodito nel logoro portafogli o nascosto tra la camicia e la pelle, ma cacciato con noncuranza nelle tasche dei pantaloni, tirato fuori a manciate: come avevano visto fare ai loro parenti, che erano partiti morti di fame, magri e cotti dal sole; e dopo venti o trent’anni tornavano, ma per una breve vacanza, con la faccia piena e rosea che faceva bel contrasto coi capelli candidi. Erano già le undici. Uno di loro accese la lampadina tascabile: il segnale che potevano venire a prenderli per portarli sul piroscafo. Quando la spense, l’oscurità sembrò più spessa e paurosa. Ma qualche minuto dopo, dal respiro ossessivo del mare affiorò un più umano, domestico suono d’acqua: quasi che vi si riempissero e vuotassero, con ritmo, dei secchi. Poi venne un brusìo, un parlottare sommesso. Si trovarono davanti il signor Melfa, che con questo nome conoscevano l’impresario12 della loro avventura, prima ancora di aver capito che la barca aveva toccato terra. – Ci siamo tutti? – domandò il signor Melfa. Accese la lampadina, fece la conta. Ne mancavano due. – Forse ci hanno ripensato, forse arriveranno più tardi… Peggio per loro, in ogni caso. E che ci mettiamo ad aspettarli, col rischio che corriamo?.
il lungo viaggio 1 il lungo viaggio 7

Tutti dissero che non era il caso di aspettarli. Se qualcuno di voi non ha il contante pronto – ammonì il signor Melfa – è meglio si metta la strada tra le gambe13 e se ne torni a casa: che se pensa di farmi a bordo la sorpresa, sbaglia di grosso: io vi riporto a terra com’è vero dio, tutti quanti siete. E che per uno debbano pagare tutti, non è cosa giusta: e dunque chi ne avrà colpa la pagherà per mano mia e per mano dei compagni, una pestata che se ne ricorderà mentre campa14; se gli va bene… Tutti assicurarono e giurarono che il contante c’era, fino all’ultimo soldo. – In barca – disse il signor Melfa. E di colpo ciascuno dei partenti diventò una informe massa, un confuso grappolo di bagagli. – Cristo! E che vi siete portata la casa appresso? – cominciò a sgranare bestemmie, e finì quando tutto il carico, uomini e bagagli, si ammucchiò nella barca: col rischio che un uomo o un fagotto ne traboccasse15 fuori. E la differenza tra un uomo e un fagotto era per il signor Melfa nel fatto che l’uomo si portava appresso le duecentocinquatamila lire; addosso, cucite nella giacca o tra la camicia e la pelle. Li conosceva, lui, li conosceva bene: questi contadini zaurri16, questi villani. Il viaggio durò meno del previsto: undici notti, quella della partenza compresa. E contavano le notti invece che i giorni, poiché le notti erano di atroce promiscuità17, soffocanti. Si sentivano immersi nell’odore di pesce di nafta e di vomito come in un liquido caldo nero bitume18. Ne grondavano19 all’alba, stremati, quando salivano ad abbeverarsi di luce e di vento. Ma come l’idea del mare era per loro il piano verdeggiante di messe20 quando il vento lo sommuove, il mare vero li atterriva: e le viscere gli si strizzavano, gli occhi dolorosamente verminavano21 di luce se appena indugiavano a guardare.

il lungo viaggio 2  il lungo viaggio 5
Ma all’undicesima notte il signor Melfa li chiamò in coperta: e credettero dapprima che fitte costellazioni fossero scese al mare come greggi; ed erano invece paesi, paesi della ricca America che come gioielli brillavano nella notte. E la notte stessa era un incanto: serena e dolce, una mezza luna che trascorreva tra una trasparente fauna di nuvole22, una brezza che allargava i polmoni. – Ecco l’America – disse il signor Melfa. – Non c’è pericolo che sia un altro posto? – domandò uno: poiché per tutto il viaggio aveva pensato che nel mare non ci sono né strade né traz-. zere23, ed era da dio24 fare la via giusta, senza sgarrare25, conducendo una nave tra cielo ed acqua. Il signor Melfa lo guardò con compassione, domandò a tutti – E lo avete mai visto, dalle vostre parti, un orizzonte come questo? E non lo sentite che l’aria è diversa? Non vedete come splendono questi paesi? Tutti convennero, con compassione e risentimento guardarono quel loro compagno che aveva osato una così stupida domanda. – Liquidiamo il conto – disse il signor Melfa. Si frugarono sotto la camicia, tirarono fuori i soldi. – Preparate le vostre cose – disse il signor Melfa dopo avere incassato. Gli ci vollero pochi minuti: avendo quasi consumato le provviste di viaggio, che per patto avevano dovuto portarsi, non restava loro che un po’ di biancheria e i regali per i parenti d’America: qualche forma di pecorino qualche bottiglia di vino vecchio qualche ricamo da mettere in centro alla tavola o alle spalliere dei sofà. Scesero nella barca leggeri leggeri, ridendo e canticchiando; e uno si mise a cantare a gola aperta26, appena la barca si mosse. E dunque non avete capito niente? – si arrabbiò il signor Melfa. – E dunque mi volete fare passare il guaio?… Appena vi avrò lasciati a terra potete correre dal primo sbirro27 che incontrate, e farvi rimpatriare con la prima corsa: io me ne fotto, ognuno è libero di ammazzarsi come vuole… E poi, sono stato ai patti: qui c’è l’America, il dovere mio di buttarvici l’ho assolto… Ma datemi il tempo di tornare a bordo, Cristo di Dio! Gli diedero più del tempo di tornare a bordo: che rimasero seduti sulla fresca sabbia, indecisi, senza saper che fare, benedicendo e maledicendo la notte: la cui protezione, mentre stavano fermi sulla spiaggia, si sarebbe mutata in terribile agguato se avessero osato allontanarsene. Il signor Melfa aveva raccomandato – sparpagliatevi – ma nessuno se la sentiva di dividersi dagli altri. E Trenton chi sa quant’era lontana, chi sa quando ci voleva per arrivarci. Sentirono, lontano e irreale, un canto. “Sembra un carrettiere nostro”, pensarono: e che il mondo è ovunque lo stesso, ovunque l’uomo spreme in canto28 la stessa malinconia, la stessa pena. Ma erano in America, le città che baluginavano29 dietro l’orizzonte di sabbia e d’alberi erano città dell’America. Due di loro decisero di andare in avanscoperta30. Camminarono in direzione della luce che il paese più vicino riverberava nel cielo. Trovarono quasi subito la strada: “asfaltata, ben tenuta; qui è diverso che da noi”, ma per la verità se l’aspettavano più ampia, più dritta. Se ne tennero fuori, ad evitare incontri: la seguivano camminando tra gli alberi. Passò un’automobile: “pare una seicento”; e poi un’altra che pareva una millecento31, e un’altra ancora: “le nostre macchine loro le tengono per capriccio, le comprano ai ragazzi come da noi le biciclette”. Poi passarono, assordanti, due motociclette, una dietro l’altra. Era la polizia, c’era da sbagliare: meno male che si erano tenuti fuori della strada. Ed ecco che finalmente c’erano le frecce32. Guardarono avanti e indietro, entrarono nella strada, si avvicinarono a leggere: Santa Croce Camerina – Scoglitti. – Santa Croce Camerina: non mi è nuovo, questo nome. – Pare anche a me; e nemmeno Scoglitti mi è nuovo. – Forse qualcuno dei nostri parenti ci abitava, forse mio zio prima di trasferirsi a Filadelfìa: che io ricordo stava in un’altra città, prima di passare a Filadelfìa. – Anche mio fratello: stava in un altro posto, prima di andarsene a Brucchilin33… Ma come si chiamasse, proprio non lo ricordo: e poi, noi leggiamo Santa Croce Camerina, leggiamo Scoglitti; ma come leggono loro non lo sappiamo, l’americano non si legge come è scritto. – Già, il bello dell’italiano è questo: che tu come è scritto lo leggi… Ma non è che possiamo passare qui la nottata, bisogna farsi coraggio… Io la prima macchina che passa, la fermo: domanderò solo “Trenton?”… Qui la gente è più educata. Anche a non capire quello che dice, gli scapperà un gesto, un segnale: e almeno capiremo da che parte è, questa maledetta Trenton. Dalla curva, a venti metri, sbucò una cinquecento: l’automobilista se li vide guizzare34 davanti, le mani alzate a fermarlo. Frenò bestemmiando: non pensò a una rapina, che la zona era tra le più calme; credette volessero un passaggio, aprì lo sportello. – Trenton? – domandò uno dei due. – Che? – fece l’automobilista. – Trenton? – Che Trenton della madonna – imprecò l’uomo dell’automobile. – Parla italiano – si dissero i due, guardandosi per consultarsi: se non era il caso di rivelare a un compatriota la loro condizione. L’automobilista chiuse lo sportello, rimise in moto. L’automobile balzò in avanti: e solo allora gridò ai due che rimanevano sulla strada come statue – ubriaconi, cornuti ubriaconi, cornuti e figli di… – il resto si perse nella corsa. Il silenzio dilagò. – Mi sto ricordando – disse dopo un momento quello cui il nome di Santa Croce non suonava nuovo – a Santa Croce Camerina, un’annata che dalle nostre parti andò male, mio padre ci venne per la mietitura. Si buttarono come schiantati35 sull’orlo della cunetta perché non c’era fretta di portare agli altri la notizia che erano sbarcati in Sicilia.

(Leonardo Sciascia, Il mare colore del vino, Einaudi)

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NOTE e SPIEGAZIONI DELLE PAROLE IN DIALETTO SICILIANO

1 cagliata: densa, fitta.
2 Gela e Licata: paesi della costa meridionale della Sicilia.
3 aggrumati… feudo: raccolti sulla terra riarsa della regione.
4 sgomentava: spaventava
5 Nugioirsi: New Jersey, stato della costa atlantica degli Stati Uniti, dove si trova la città di Trenton. Il nome straniero è pronunciato con una storpiatura dialettale.
6 Nuovaiorche: altra storpiatura popolare per New York.
7 “chi ha lingua… mare”: il senso del proverbio è che chi sa parlare è capace di arrangiarsi e può arrivare dovunque.
8 agli stori e alle farme: pronuncia dialettale per i termini inglesi stores (“magazzini”) e farmes (“fattorie”).
9 scapolari: immaginette sacre su stoffa che si tenevano sotto i vestiti, appese al collo.
10 terragna: bassa, modesta.
11 angaria: sopruso.
12 l’impresario: il signor Melfa è l’organizzatore del trasporto: dovrebbe imbarcare i contadini e sbarcarli in America
13 si metta… gambe: si rimetta in cammino di corsa [modo di dire popolare].
14 mentre campa: finché vive.
15 traboccasse: cadesse.
16 zaurri: zoticoni.
17 di atroce promiscuità: passate in una terribile mescolanza di corpi.
18 bitume: liquido denso e appiccicoso, nerastro.
19 Ne grondavano: se ne liberavano.
20 messe: messi, grano.
21 verminavano: formicolavano, come abbagliati dopo la lunga oscurità.
22 trasparente fauna di nuvole: nubi evanescenti di tutti i tipi e le forme
23 trazzere: sentieri per gli animali [termine siciliano].
24 era da dio: bisognava essere molto abili.
25 sgarrare: sbagliare.
26 a gola aperta: a piena voce.
27 sbirro: poliziotto.
28 spreme in canto: esprime, trasferisce nel canto.
29 baluginavano: brillavano.
30 in avanscoperta: in esplorazione.
31 seicento… millecento: sono automobili di piccola cilindrata, di marca italiana.
32 frecce: cartelli stradfali.
33 Brucchilin: storpiatura per Brooklyn, quartiere di New York.
34 guizzare: balzare.
35 schiantati: straziati, distrutti
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il lungo viaggio 6
LEONARDO SCIASCIA (1921-1989) nasce a Racalmuto, in provincia di Agrigento, da una famiglia della borghesia siciliana. Intellettuale di grande impegno politico e civile, negli anni Settanta fu anche deputato del parlamento nazionale ed europeo. Nelle sue opere (saggi, romanzi, articoli giornalistici) egli denuncia i mali della sua terra natale, visti spesso come un sintomo del più vasto degrado sociale e morale di tutta l’Italia. In particolare, nel romanzo “Il giorno della civetta” affronta per la prima volta in modo diretto il problema della mafia e dei suoi legami con i politici corrotti attraverso il genere letterario del giallo, capace di avvicinare il grande pubblico a queste tematiche.

Nella raccolta di racconti “Il mare colore del vino” (1973), tratta alcune piaghe sociali del Sud dell’Italia, tra cui il grave problema dell’emigrazione clandestina.
Nel “Il lungo viaggio”, tratto dalla raccolta Il mare colore del vino, Sciascia racconta la terribile beffa di cui sono vittime alcuni poveri contadini siciliani che, all’inizio del Novecento, vorrebbero emigrare in America per sfuggire a una vita di stenti e miseria. Dopo aver preso accordi con un losco individuo, il signor Melfa, e avergli pagato un’ingente somma di denaro, gli emigranti si ritrovano di notte, pieni di paura ma anche di speranza, su una spiaggia vicino a Gela, e si imbarcano sulla nave che dovrebbe portarli a New York.
Dopo un lungo e difficile viaggio, durato undici notti, Melfa li fa sbarcare.
Ma i loro sogni di ricchezza e benessere saranno atrocemente delusi: una brutta sorpresa li aspetta…

LE OPERE Oltre al Giorno della civetta, e ai racconti Il mare color del vino altre opere di Sciascia sono: Todo modo e A ciascuno il suo.(Dal web)

3 Commenti a “IL LUNGO VIAGGIO racconto di LEONARDO SCIASCIA”

  1. gianna scrive:

    Molto bello il racconto e Amaro di .Leonardo Sciascia, per un Siciliano che rappresenta la sua voglia di scrivere. certo altri tempi gente diversa che invidiavono fino a qualche tempo fa i giovani, d’oggi, c’era solo fame e miseria.

  2. lorenzo12.rm scrive:

    Grande, amaro Leonardo Sciascia, che per un siciliano come me rappresenta l’a e l’omega del buon scrivere. Altri tempi, altra gente. Invidiavo fino a qualche tempo fa i giovani d’oggi. Ora sono un pentito e antico. Amo Sciascia.

  3. franco scrive:

    Molto bello questo racconto/metafora di Sciascia…Che per i poveri tutto il mondo sia paese questo è certo , c’è la speranza e i suoi viaggi , c’è la fame e le sue miserie…e le stelle stanno a guardare.

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