ultimo viene il corvo

Italo Calvino Ultimo viene il corvo

 

Anche se il 25 aprile è passato  mi piace presentarvi un racconto ambientato durante la resistenza italiana al nazismo.

L’autore è Italo Calvino (Santiago de Las Vegas de La Habana, 15 ottobre 1923 – Siena, 19 settembre 1985)  partigiano e scrittore tra i più importanti narratori del secolo XX.

In questo racconto (da “I racconti”  Ed.Einaudi, Torino, 1949), troviamo molti degli elementi della scrittura di Calvino: l’ironia, il grottesco, il dramma e la favola.

Infatti lo scrittore ci presenta spesso la realtà sotto forma di mito o di fiaba.

In particolare qui affiora l’aspetto disumano della guerra che insegna ad un ragazzino, senza nemmeno un nome, ma “con la faccia a mela”, ad essere crudele, a sparare quasi per gioco ed a sentirsi invincibile, perché è ammesso al mondo degli adulti ed ha in mano un fucile.

Buona lettura! Buona discussione!

 

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Ultimo viene il corvo

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La corrente era una rete di increspature leggere e trasparenti, con in mezzo l’acqua che andava. Ogni tanto c’era come un battere d’ali d’argento a fior d’acqua: il lampeggiare del dorso di una trota che riaffondava subito a zig-zag. «C’è pieno di trote» disse uno degli uomini. «Se buttiamo dentro una bomba vengono tutte a galla a pancia all’aria» disse l’altro; si levò una bomba dalla cintura e cominciò a svitare il fondello . Allora s’avanzò il ragazzo che li stava a guardare, un ragazzotto montanaro, con la faccia a mela. «Mi dài» disse e prese il fucile a uno di quegli uomini. «Cosa vuole questo?» disse l’uomo e voleva togliergli il fucile. Ma il ragazzo puntava l’arma sull’acqua come cercando un bersaglio. «Se spari in acqua spaventi i pesci e nient’altro», voleva dire l’uomo ma non finì neanche. Era affiorata una trota, con un guizzo, e il ragazzo le aveva sparato una botta addosso, come l’aspettasse proprio lì. Ora la trota galleggiava con la pancia bianca. «Cribbio » dissero gli uomini. Il ragazzo ricaricò l’arma e la girò intorno. L’aria era tersa e tesa: si distinguevano gli aghi sui pini dell’altra riva e la rete d’acqua della corrente. Una increspatura saettò alla superficie: un’altra trota. Sparò: ora galleggiava morta. Gli uomini guardavano un po’ la trota un po’ lui. «Questo spara bene» dissero. Il ragazzo muoveva ancora la bocca del fucile in aria. Era strano, a pensarci, essere circondati così d’aria, separati da metri d’aria dalle altre cose. Se puntava il fucile invece, l’aria era una linea diritta ed invisibile, tesa dalla bocca del fucile alla cosa, al falchetto che si muoveva nel cielo con le ali che sembravano ferme. A schiacciare il grilletto l’aria restava come prima trasparente e vuota, ma lassù all’altro capo della linea il falchetto chiudeva le ali e cadeva come una pietra. Dall’otturatore aperto usciva un buon odore di polvere. Si fece dare altre cartucce. Erano in tanti ormai a guardarlo, dietro di lui in riva al fiumicello. Le pigne in cima agli alberi dell’altra riva perché si vedevano e non si potevano toccare? Perché quella distanza vuota tra lui e le cose? Perché le pigne che erano una cosa con lui, nei suoi occhi, erano invece là, distanti? Però se puntava il fucile la distanza vuota si capiva che era un trucco; lui toccava il grilletto e nello stesso momento la pigna cascava, troncata al picciòlo. Era un senso di vuoto come una carezza: quel vuoto della canna del fucile che continuava attraverso l’aria e si riempiva con lo sparo, fin laggiù alla pigna, allo scoiattolo, alla pietra bianca, al fiore di papavero. «Questo non ne sbaglia una» dicevano gli uomini e nessuno aveva il coraggio di ridere. «Tu vieni con noi» disse il capo. «E voi mi date il fucile» rispose il ragazzo. «Ben. Si sa.» Andò con loro. Partì con un tascapane pieno di mele e due forme di cacio. Il paese era una macchia d’ardesia paglia e sterco vaccino in fondo alla valle. Andare via era bello perché a ogni svolta si vedevano cose nuove, alberi con pigne, uccelli che volavano dai rami, licheni sulle pietre, tutte cose nel raggio delle distanze finte, delle distanze che lo sparo riempiva inghiottendo l’aria in mezzo. Non si poteva sparare però, glielo dissero: erano posti da passarci in silenzio e le cartucce servivano per la guerra. Ma a un certo punto un leprotto spaventato dai passi traversò il sentiero in mezzo al loro urlare e armeggiare. Stava già per scomparire nei cespugli quando lo fermò una botta del ragazzo. «Buon colpo» disse anche il capo «però qui non siamo a caccia. Vedessi anche un fagiano non devi più sparare.» Non era passata un’ora che nella fila si sentirono altri spari. «È il ragazzo di nuovo!» s’infuriò il capo e andò a raggiungerlo. Lui rideva, con la sua faccia bianca e rossa, a mela. «Pernici» disse, mostrandole. Se n’era alzato un volo da una siepe. «Pernici o grilli, te l’avevo detto. Dammi il fucile. E se mi fai imbestialire ancora torni al paese.» Il ragazzo fece un po’ il broncio; a camminare disarmato non c’era gusto, ma finché era con loro poteva sperare di riavere il fucile. La notte dormirono in una baita da pastori. Il ragazzo si svegliò appena il cielo schiariva, mentre gli altri dormivano. Prese il loro fucile più bello, riempì il tascapane di caricatori e uscì. C’era un’aria timida e tersa, da mattina presto. Poco discosto dal casolare c’era un gelso. Era l’ora in cui arrivavano le ghiandaie. Eccone una: sparò, corse a raccoglierla e la mise nel tascapane. Senza muoversi dal punto dove l’aveva raccolta cercò un altro bersaglio: un ghiro! Spaventato dallo sparo, correva a rintanarsi in cima ad un castagno. Morto era un grosso topo con la coda grigia che perdeva ciuffi di pelo a toccarla. Da sotto il castagno vide, in un prato più basso, un fungo, rosso coi punti bianchi, velenoso. Lo sbriciolò con una fucilata, poi andò a vedere se proprio l’aveva preso. Era un bel gioco andare così da un bersaglio all’altro: forse si poteva fare il giro del mondo. Vide una grossa lumaca su una pietra, mirò il guscio e raggiunto il luogo non vide che la pietra scheggiata, e un po’ di bava iridata. Così s’era allontanato dalla baita, giù per prati sconosciuti. Dalla pietra vide una lucertola su un muro, dal muro una pozzanghera e una rana, dalla pozzanghera un cartello sulla strada, bersaglio facile. Dal cartello si vedeva la strada che faceva zig-zag e sotto: sotto c’erano degli uomini in divisa che avanzavano ad armi spianate. All’apparire del ragazzo col fucile che sorrideva con quella faccia bianca e rossa, a mela, gridarono e gli puntarono le armi addosso. Ma il ragazzo aveva già visto dei bottoni d’oro sul petto di uno di quelli e fatto fuoco mirando a un bottone. Sentì l’urlo dell’uomo e gli spari a raffiche o isolati che gli fischiavano sopra la testa: era già steso a terra dietro un mucchio di pietrame sul ciglio della strada, in angolo morto. Poteva anche muoversi, perché il mucchio era lungo, far capolino da una parte inaspettata, vedere i lampi alla bocca delle armi dei soldati, il grigio e il lustro delle loro divise, tirare a un gallone, a una mostrina. Poi a terra e lesto a strisciare da un’altra parte a far fuoco. Dopo un po’ sentì raffiche alle sue spalle, ma che lo sopravanzavano e colpivano i soldati: erano i compagni che venivano di rinforzo coi mitragliatori. «Se il ragazzo non ci svegliava coi suoi spari» dicevano. Il ragazzo, coperto dal tiro dei compagni, poteva mirare meglio. Ad un tratto il proiettile gli sfiorò una guancia. Si voltò: un soldato aveva raggiunto la strada sopra di lui. Si buttò in una cunetta, al riparo, ma intanto aveva fatto fuoco e colpito non il soldato ma di striscio il fucile, alla cassa. Sentì che il soldato non riusciva a ricaricare il fucile, e lo buttava a terra. Allora il ragazzo sbucò e sparò sul soldato che se la dava a gambe: gli fece saltare una spallina. L’inseguì. Il soldato ora spariva nel bosco ora riappariva a tiro. Gli bruciò il cocuzzolo dell’elmo, poi un passante della cintura. Intanto inseguendosi erano arrivati in una valletta sconosciuta, dove non si sentiva più il rumore della battaglia. A un certo punto il soldato non trovò più bosco davanti a sé, ma una radura, con intorno dirupi fitti di cespugli. Ma il ragazzo stava già per uscire dal bosco: in mezzo alla radura c’era una grossa pietra; il soldato fece appena in tempo a rimpiattarcisi dietro, rannicchiato con la testa tra i ginocchi. Là per ora si sentiva al sicuro: aveva delle bombe a mano con sé e il ragazzo non poteva avvicinarglisi ma solo fargli la guardia a tiro di fucile, che non scappasse. Certo, se avesse potuto con un salto raggiungere i cespugli, sarebbe stato sicuro, scivolando per il pendio fitto. Ma c’era quel tratto nudo da traversare: fin quando sarebbe rimasto lì il ragazzo? E non avrebbe mai smesso di tenere l’arma puntata? Il soldato decise di fare una prova: mise l’elmo sulla punta della baionetta e gli fece far capolino fuori dalla pietra. Uno sparo, e l’elmo rotolò per terra, sforacchiato. Il soldato non si perse d’animo; certo mirare lì intorno alla pietra era facile, ma se lui si muoveva rapidamente sarebbe stato impossibile prenderlo. In quella un uccello traversò il cielo veloce, forse un galletto di marzo. Uno sparo e cadde. Il soldato si asciugò il sudore dal collo. Passò un altro uccello, una tordella: cadde anche quello. Il soldato inghiottiva saliva. Doveva essere un posto di passo, quello: continuavano a volare uccelli, tutti diversi e quel ragazzo a sparare e farli cadere. Al soldato venne un’idea: «Se lui sta attento agli uccelli non sta attento a me. Appena tira io mi butto». Ma forse prima era meglio fare una prova. Raccattò l’elmo e lo tenne pronto in cima alla baionetta. Passarono due uccelli insieme, stavolta: beccaccini. Al soldato rincresceva sprecare un’occasione così bella per la prova, ma non si azzardava ancora. Il ragazzo tirò a un beccaccino, allora il soldato sporse l’elmo, sentì lo sparo e vide l’elmo saltare in aria. Ora il soldato sentiva un sapore di piombo in bocca; s’accorse appena che anche l’altro uccello cadeva a un nuovo sparo. Pure non doveva fare gesti precipitosi: era sicuro dietro quel masso, con le sue bombe a mano. E perché non provava a raggiungere il ragazzo con una bomba, pur stando nascosto? Si sdraiò schiena a terra, allungò il braccio dietro a sé, badando a non scoprirsi, radunò le forze e lanciò la bomba. Un bel tiro; sarebbe andata lontano; però a metà della parabola una fucilata la fece esplodere in aria. Il soldato si buttò faccia a terra perché non gli arrivassero schegge. Quando rialzò il capo era venuto il corvo. C’era nel cielo sopra di lui un uccello che volava a giri lenti, un corvo forse. Adesso certo il ragazzo gli avrebbe sparato. Ma lo sparo tardava a farsi sentire. Forse il corvo era troppo alto? Eppure ne aveva colpito di più alti e veloci. Alla fine una fucilata: adesso il corvo sarebbe caduto, no, continuava a girare lento, impassibile. Cadde una pigna, invece, da un pino lì vicino. Si metteva a tirare alle pigne, adesso? A una a una colpiva le pigne che cascavano con una botta secca. A ogni sparo il soldato guardava il corvo: cadeva? No, l’uccello nero girava sempre più basso sopra di lui. Possibile che il ragazzo non lo vedesse? Forse il corvo non esisteva, era una sua allucinazione. Forse chi sta per morire vede passare tutti gli uccelli: quando vede il corvo vuol dire che è l’ora. Pure, bisognava avvertire il ragazzo che continuava a sparare alle pigne. Allora il soldato si alzò in piedi e indicando l’uccello nero col dito. «Là c’è il corvo!» gridò, nella sua lingua. Il proiettile lo prese giusto in mezzo a un’aquila ad ali spiegate che aveva ricamata sulla giubba. Il corvo s’abbassava lentamente, a giri.

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9 Commenti a “Italo Calvino – Ultimo viene il corvo”

  1. Giuseppe3.ca scrive:

    Forse arrivo tardi per un commento (non ho avuto il tempo di leggere) comunque apprezzo il lavoro, Paola, un saluto, ciao.

  2. paul candiago scrive:

    Signora Paola, grazie del suo buon senso e di andare oltre lo scrivere di una persona/e.Milioni e milioni di gente che scrive, come loro diritto, in cui il contenuto del “corvo”, anche alla prima riflessione, ha il tempo che trova. Lasciamo i piccoli e ragazzi nella loro innocenza ed insegnamoli, durante questo periodo di formazione Verita’ e Giustizia. Perche’ inquinare le loro menti con ipotetiche, esoteriche situazioni di vederli con armi in mano: ma abbiamo perso la testa? Che perversa pedagogia educativa vogliamo provare? Quale vantaggio sociomoarale ed etico se ne trae inculcando odio e violenza nelle menti dei piccoli? Ci troviamo qui di fronte ad una forma occulta e sofisticata di lettura, per adulti, per promuovere istinti di sopraffazione contando anche sulla possibilita’ di trasferire il veleno, dell’odio che si e’ letto, ad altri sulla base di ragionata violenza. Diabolico. Paul

  3. alfred-sandro.ge scrive:

    Che “faccia di mela” sia da ammirare e sia un eroe è detto con retorica.
    Non è affatto un eroe anche perchè il soldato si è alzato in piedi ed è diventato un facile bersaglio…
    Da un po sentiva sparare e sperava di veder cadere il corvo che forse solo lui vedeva: lo precisa l’autore che chi sta per morire vede uccelli volare…..
    Un soldato in guerra ha sempre paura di morire e spesso ci riesce.

  4. paolacon scrive:

    Vorrei rispondere ad Alfred che non percepisco il ragazzino come un eroe; lui spara perché si diverte, si sente grande e non sente la differenza tra il bene e il male.
    è cresciuto senza una guida e si è trovato nel turbine di avvenimenti più grandi di lui
    Alfred tu dici che gioiamo perché lui spara al nemico lo vedi come un eroe; a me non ha dato questa sensazione la lettura del racconto, il ragazzino non è da ammirare
    E poi c’è quest’attesa della morte, rappresentata dal volteggiare del corvo, il soldato sicuramente sa che morirà e quasi a voler terminare questa ansia si alza in piedi ed indica il corvo “è lì che devi sparare” ci spera ancora
    è un racconto molto bello così asciutto e sintetico, uno dei primi che apre la via allo stile di Calvino.
    Che ne pensate?

  5. gianna scrive:

    Paola il tuo racconto lirico è di una estrema bellezza, dobbiamo riflettere su molte cose: basta guerre speriamo che la vita migliori per noi e per il mondo intero ,anche se cogliamo il senso dell’impotenza.mai più Guerre, Un saluto

  6. sandra.VI scrive:

    Racconto veramente stupendo….è CALVINO ,però anche se metafora di quel ragazzo dalla faccia di mela /e fucile ,mi riempe di tanta tristezza e scoramento ,basta guerre ,basta sangue,vorrei poterlo urlare a tutto il mondo pace ,pace

  7. alfred-sandro1.ge scrive:

    Un bambino che spara, in quel contesto, e’un eroe, uno da ammirare.
    L’ambiente contadino ci porta a pensare che sia naturale saper
    maneggiare con abilita’un fucile anche ai bambini. Il periodo storico, la letteratura, ci hanno mostrato tutto questo come normale e forse normale lo era davvero.
    Ma se oggi, un ragazzino , per spirito di emulazione intendesse ripetere quelle gesta ? Faccia di mela sparava per divertimento a qualunque cosa vedesse, disobbedendo anche al severo capo.
    Fabrizio de Andre ne “la guerra di piero” mette bene in risalto l’inesperienza del giovane col fucile e la divisa di un altro colore.
    E’ cronaca di tutti i giorni sparatorie di giovani possessori di armi.

  8. franco scrive:

    Racconto lirico di una estrema bellezza…è Calvino ! Il ragazzo/morte è una metafora splendida , questi spari che “inghiottono l’aria in mezzo” , quando in guerra la “fine” ti circonda e abbatte tutte le cose , solo il nero corvo volteggia su pigne , animali e uomini che perdono il loro significato per annullarsi nel rumore di un proiettile.

  9. lorenzo12.rm scrive:

    Un pezzo stupendo. Riflettiamo sulla vanità delle cose. E della vita. Soprattutto, diciamo a noi stessi e al mondo: basta più guerre, mai più, anche se cogliamo il senso dell’impotenza. E dello scoramento.

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