Negli ultimi anni ho scoperto che il federalismo, (inteso come indipendenza amministrativa, ovvero che un atto prodotto in una regione non ha alcun valore in un’altra), di fatto esiste già in ambito sanitario.
In soldoni, una prescrizione medica redatta in Lombardia non vale nulla fuori dai confini regionali: quindi prima di partire non vado solo dal medico, passo anche in farmacia, altrimenti niente medicine.
Ho scoperto che in Sicilia con 8.000 € di pensione si è ricchi e si paga un tichet sostanzioso, stessi esami e in Lombardia si è esenti se non si superano i 36.000 €. Non so proprio che tipo di federalismo stiano costruendo, so solo che ognuno pensa al proprio orto.
Dice bene chi ricorda che l’Italia è stata fatta con il sangue del sud.
Dalla prima guerra mondiale con i soldati al fronte, alla ricostruzione post seconda, con fatica e sangue nelle fabbriche del nord (non sufficienti a mio parere per lavare le coscienze dei vari Sperperon De Sperperoni).
Però bisogna anche comprendere il malessere del nord, perché non è bello neanche per noi che al sud abbiamo avuto i natali, vedere fior di fondi buttati al vento.
Oltre 1.O00 cliniche private in Sicilia (basta digitare Cliniche Private in Sicilia e il dato compare sulla sinistra dello schermo), con una sanità pubblica che fa acqua, dove gli intrallazzi vengono denunciati da più parti e i risultati sono quelli di avere sempre 1.000 strutture in fase di preaccreditamento: il che significa che dopo decenni non sono a norma e percepiscono, da privati, soldi pubblici, alla faccia del tempo che hanno avuto per normalizzarsi (La clinica S.Rita però è ambrogina e accreditata).
Inoltre capisco il malessere del nord che vive in città contornate da squallidi marciapiedi asfaltati e, quando arriva l’oasi vacanziera, vede alcuni paesini del sud, che solo perché han dato i natali a quell’On. o Sen., hanno marciapiedi piastrellati, parchi a tre livelli, con piscina e campi da tennis annessi, e dulcis in fundo, un galoppatoio, e non da oggi, già negli anni ’80 (Castel Umberto). La lista è lunga come il calendario, i cui nomi coincidono con quelle dei santi (protettori).
Poche anime e da dove arrivano i soldi?
Allo stesso modo negli ultimi venti anni ho visto cambiar faccia a tanti paesini sulle Orobie: Ponte di Legno, Clusone ecc. fino a Cornello dei Tassi, per non parlar della pianura, Caravaggio, Martinengo, e anche li tutto è avvenuto con l’avvento della Lega, vale a dire con l’elezione di persone che in quei territori hanno visto la luce.
Allora, io uomo della strada, contribuente forzato, come posso non concludere che tutto sto parlare di federalismo alla fine può portare benefici solo a chi sa razzolare a Roma?
Viviamo in un mondo globale, un mondo che colma le distanze per mantenere gli altri mondi a distanza di sicurezza.
Ecco la mia remora sul federalismo che si presenta come divisione, e non come unione nella diversità.
Quando vai nella Svizzera federata, senti un senso comune di appartenenza, uno Stato.
Noi siamo arrivati tra gli ultimi alla forma di Nazione Stato, e siamo già stanchi.
Forse pensiamo di poter avere un maggior controllo sul piccolo territorio, ma è vero l’opposto: più piccolo è il territorio più debole è il potere di controllo che, in nome del bene comune, può essere esercitato su chi gestisce la cosa pubblica.
In agguato la possibilità di commistioni tra potere economico e potere politico, che, solo uno stato forte e centralista può controllare. Ma come potrà, uno Stato decentrato, controllare il signorotto di turno?
Qualcuno pensa a forze di polizia locale e qualcun altro pensa a polizia di quartiere, come ad esempio le ronde (bella consolazione). Quanto grande è l’area da vigilare su un territorio da occupare fisicamente?
Infine non dimentichiamo che il federalismo che oggi propongono di realizzare, è il figlio abortito del secessionismo (o viceversa?).
La forza politica che auspica il federalismo è la stessa che propugnava il secessionismo. Ha accantonato l’idea o sarà il passo successivo?
Non è che si sta facendo come han fatto i talebani con gli USA, che avute le armi per combattere i Russi, poi han tirato giù due torri a New York?
Forse ascoltare di più l’uomo della strada farebbe bene ai teorici della politica, una libanizzazione della penisola non è solo un rischio da escludere.
Mi sono imbattuto nella frase di un prete, Don Gnocchi, che recita così:
“La triste particolarità del nostro tempo è il tentativo di confusione tra il bene e il male, il pericolo di anestesia delle coscienze e di legalizzazione del male. E questo è molto più grave. Un errore in sede di pensiero è assai più pericoloso di ogni errore pratico”.
Chiaramente non l’ha scritta per questo contesto (1937), ma quanto si adatta a questo confuso quotidiano di certezze nebulose.
Popof 31maggio2009
La nostra vita è tutta una corsa!
Quanto spesso siamo soliti dire: “vado di corsa”,corro!! sono in ritardo!
In effetti, l’uomo ha sempre corso, sin dalla sua prima apparizione sulla terra;correva per cacciare,per difendersi, per sfuggire al nemico, poi via via la corsa fisica ha ceduto il passo ad altri tipi di corsa e, in alcuni casi assolutamente meno salutari,come la corsa al potere,all’arricchimento.
Io, qui, voglio parlare della corsa, intesa come l’ attività fisica più semplice e più naturale. La vita si allunga vertiginosamente,siamo giovani o ci sentiamo tali fino ad età una volta ritenute venerande, così giunti alla pensione invece di rintanarci nelle nostre case con pantofole e occhiali a vedere televisione, ci troviamo impegnati in attività sociali di volontariato e ricreative, ed ecco che stare in forma diventa un imperativo e non un fattore squisitamente estetico o un adeguarsi ai cliché e ai modelli della moda. Il connubio tra stili di vita più sani, alimentazione sobria e controllata, una buona forma psico- fisica, diventa un’esigenza per mantenersi in buona salute e godersi la vita.
Basta accendere la televisione , leggere i giornali e i manifesti sui muri della città per trovare palestre, centri fitness che ci propongono valide proposte per il nostro benessere. Spesso le palestre sono luoghi chiusi e un po’ puzzolenti dove tutti sudano su attrezzi che rullano..o pesi o altre diavolerie o si balla a ritmo nella speranza di bruciare calorie e perdere peso.Ma le palestre costano: occorrono tessere, quote, si devono sfoggiare tutine alla moda e il fisico più atletico con tanto di muscoli in evidenza.
Pur non piacendomi frequentavo ugualmente questi ambienti, poi, smisi di fumare e un mio amico mi propose di andare a correre con lui e da lìè iniziata la mia passione per la corsa.
Cosa c’è di meglio della corsa? E’ la pratica sportiva più semplice, alla portata di tutti, pratica, salutare.
Migliora l’attività cardiaca e circolatoria, abbassa la pressione arteriosa, aiuta a perdere peso, diminuisce la quantità di zuccheri nel sangue, favorisce il buonumore, aumenta il valore del colesterolo buono (HDL) che combatte quello dannoso (LDL), combatte lo stress, aumenta la capacità vitale dei polmoni migliorando l’ossigenazione dei tessuti.E poi…vi pare poco il contatto con la natura, il respiro dell’aria serale e di quella mattutina quando alle 7.30 molti sono ancora avvolti dalle coperte? Quando si corre diventa tutto speciale e diverso , la corsa piu bella è quella in riva al mare al mattino presto,e come descrivere quel senso di pace con te stesso ? E poi una volta tornati a casa è bellissimo provare quella sensazione di stanchezza vera, fisica, benefica , quella spossatezza che ci svuota la mente dalle preoccupazioni, dai pensieri,che ci rilassa, diversa dalla stanchezza da stress che molti ahimè conosciamo. La corsa accompagna i momenti più difficili della vita ,anche se è una passione di pochi mesi durante l ‘anno,non vedo l’ora di incominciare e l’unica parola d’ordine è la costanza e la determinazione nel farlo. Poi basta un paio di scarpe da ginnastica ,una tuta comoda e via pronti a partire.
BUONA CORSA A TUTTI……
Mimmo.ta 30maggio2009
Pubblico nel nostro blog un’intervista fatta a Flavio Briatore (team manager Renault) tratta dal “corriere della sera “ di oggi.
Trovo corretto sentire anche “altre campane” come giustamente hanno osservato alcuni nostri utenti. E per quanto mi riguarda non tratterò più questo caso.
MILANO — «Il presidente? È un single. Da parecchio tempo. E un single, è libero». Flavio Briatore ha in comune con il premier una passione sconfinata per la Sardegna, e una lunga frequentazione che nasce proprio sotto al sole della costa Smeralda. E nel leggere i racconti sulle feste a Villa Certosa traboccanti di starlette, il team manager della Renault si infiamma: «Vuol sapere la verità? Tutta questa storia nasce dall’invidia ».
Invidia della sinistra nei confronti del premier?
«Appunto. Del resto, che cosa sono diventati, è lì da vedere. Un gruppetto che litiga su tutto e si accorda su una cosa soltanto: l’antiberlusconismo. Che poi è odio nei confronti di chi ce l’ha fatta. Guardi il Billionaire: era una discoteca, e grazie al livore è diventata quasi un simbolo negativo. Per pochi, fortunatamente ».
Perdoni. Ma aerei pieni di ragazze che convergono sulla Sardegna non sono qualcosa di inadatto a un premier?
«Il presidente ama circondarsi di persone giovani: sono meno noiose, ti danno ispirazione, sono il futuro. In più, lui è una persona di una generosità unica. Villa Certosa è una meraviglia del mondo, ma non un bunker: lui ama condividerla. Ci ha invitato anche i camerieri del Billionaire. È vero: Berlusconi ama piacere. Ma non è un reato. Anzi, credo non sia nemmeno un difetto».
Magari succede che qualche ragazza scambi la naturale empatiadel presidente per qualcosa d’altro…
«Può accadere. Ma può accadere a tutti. E segnatamente a una persona nella sua posizione. Anche a me, a volte, è capitato… ».
Ma che cosa succede nelle feste di Villa Certosa?
«Ma che vuole che succeda? Sono feste molto carine, molto garbate. Mai visto nulla non dico di trasgressivo, ma nemmeno di malizioso. Neanche si strabeve, per dire. C’è il presidente che si dà un gran daffare nel far sentire tutti a proprio agio. Individua subito chi è un po’ più rigido, intimidito da una situazione così fuori dal comune, e si fa in quattro per coinvolgerlo ».
Vabbè, ma ci racconti una di queste feste.
«Le feste sono il presidente che racconta, c’è la musica, e soprattutto c’è la visita a questa villa sensazionale. E mi creda, io di case belle ne ho viste in tutti i continenti… Lui non me l’ha mai detto, ma credo che alla fine la regalerà alla Sardegna. Comunque, lui porta in giro i suoi ospiti, racconta, conosce ogni albero, ogni pianta. Spiega certe scelte. Poi, c’è il gioco del vulcano… ».
E come funziona?
«Lui chiacchiera del più e del meno, e quando il gruppo si avvicina al laghetto finge di preoccuparsi: ‘Il fatto — dice— è che pochi lo sanno, ma la Sardegna è una zona vulcanica, potrebbero esserci dei fenomeni…’ E a quel punto si sente un’esplosione pazzesca, ci sono degli effetti tipo fiamme, luci… è un gioco».
Però, a gettare una luce diversa anche sulle feste di Villa Certosa è stata la stessa moglie del presidente. Il «divertimento dell’imperatore», le «vergini che si offrono al drago», persino «l’uomo malato»…
«Ripeto. Il presidente del Consiglio è un single. E si comporta da single. Io a Capodanno ho invitato in Kenia 25 amici. Un po’ li ho scelti io, altri sono stati invitati da mia moglie Elisabetta. Normale. Ma se uno la moglie non ce l’ha, gli amici se li deve scegliere da solo».
Veramente, il presidente risulta sposato.
«Lo sanno tutti che da molto tempo non vivevano insieme. Con la moglie il rapporto è formale da anni, non da marito e moglie. Senza voler fare gossip, anche lei si fa la sua vita con i suoi interessi e le sue passioni. Io credo che Berlusconi senta la solitudine del potere».
Perdoni: il presidente sembra tutto tranne che solo. E non è una battuta su meteorine, letterine, veline e quant’altro…
«E invece penso sia così. I figli stanno crescendo e prendono le loro strade. Mentre la signora nei confronti del marito è sempre stata molto assente, anche nella sua vita pubblica: mi pare che lo abbia accompagnato non più di tre volte. E a Villa Certosa, lei non ce l’ho mai vista. Una moglie, io credo, dovrebbe essere presente. Soprattutto: se non vivi con una persona, cosa ne sai? Non hai elementi per scandalizzarti per quello che fa. E forse, non ne hai neppure il titolo… E poi, sempre prima delle elezioni certe uscite. Sembra filoguidata».
E i ciondoli a farfalla?
«Ma che c’è da inventare su questo? Sono un regalo alle ospiti. Penso ne avrà distribuiti a migliaia. Quando si va a Villa Certosa, per gli uomini ci sono sei cravatte e le signore ricevono il ciondolo. Punto. Soltanto mia moglie, non so quanti ne abbia… ».
Qualche giorno fa, mentre ero in chat in Eldy con la tv accesa, mi sono soffermata ad ascoltare un dibattito alla “Vita in diretta” sul problema della Eucarestia negata ai divorziati risposati.
Premesso che il problema non mi tocca in prima persona, lanciai questa domanda in chat allo scopo di discutere su un argomento serio e per sapere un po’ come gli altri la pensassero in merito.
Come spesso accade quando siamo in molti, solo qualcuno espresse la propria opinione e poco dopo la questione cadde nel silenzio.
Oggi, sfogliando un settimanale, ritrovo la stessa domanda e allora mi è venuto in mente di lanciarla sul blog. Forse qui essendoci più calma qualcuno si esprimerà.
Tornando, dunque, al quesito cercherò, dopo essermi documentata un tantino, di dirvi come la penso io.
In merito ci sono opinioni diverse anche in autorevoli ambienti cattolici, come quella del Cardinale Martini che pensa che i tempi siano ormai maturi per affrontare la questione.
La Chiesa ha tempi di reazione diversi rispetto all’evoluzione della morale comune. Per questo motivo appaiono anacronistici i limiti per i divorziati e sarebbe bene, secondo il mio modesto parere, che la riflessione della Chiesa arrivasse presto ad una sintesi più adeguata ai tempi.
E pur giusto che la Chiesa metta dei limiti a coloro che” infrangono” l’indissolubilità del matrimonio, ma questi limiti sono ora troppo rigidi e andrebbero rivisti.
A questo punto ci sarebbe da chiedersi: “Meglio una comunità cattolica PURA (che solo i PURI, coloro che non sono macchiati dal peccato possono ricevere l’ostia consacrata, gli altri troveranno comunque nel desiderio di comunione e nella partecipazione all’eucaristia una forza e una efficacia salvatrice), (parole tratte dal discorso del Pontefice), RIGOROSA ma MINORITARIA o una Chiesa VIVA a contatto con la realtà?”
Io opto per la seconda e quindi per il “NO” nei riguardi dei limiti anacronistici per i divorziati.
Che la comunione ai divorziati risposati sia una questione aperta, è lo stesso Ratzinger, divenuto papa, ad ammetterlo. Ne ha parlato in due occasioni ed in entrambe le volte Benedetto XVI ha suggerito di “approfondire un caso specifico: l’eventuale nullità di un matrimonio ecclesiastico celebrato senza fede, per coloro che passati a una seconda convivenza tornano alla pratica cristiana e chiedono la comunione”.
E poi, infine, permettetemi un’ultima considerazione di carattere più generale: “ Si dice sempre che tutto ciò di cui la Chiesa si fa portavoce è scritto nella Sacra Bibbia. Ma chi ha tradotto ed interpretato ciò che è scritto nella Bibbia? Gli uomini!
Per fare un esempio di ciò che voglio dire, basta rileggere o recitare la preghiera del Padre Nostro che ad un certo punto recita: ”Non ci indurre in tentazione….”, come se il Signore potesse farci una cosa del genere. Quindi è chiaro che all’origine ci sia un errore di traduzione in questa frase, che, lo stesso Cardinale Martini, qualche tempo fa, aveva proposto di cambiare.
Non è proprio lo stesso discorso, ma tutto questo per dire che alcune cose potrebbero essere cambiate anche in virtù dell’evolversi dei tempi.
Concludo dicendo che , come in tutte le cose, bisognerebbe trovare il “giusto mezzo”, valutare attentamente le motivazioni che hanno portato due persone a divorziare e poi decidere in merito con dei canoni ben definiti
Adesso lascio a voi la parola per sapere come la pensiate in merito.
Grazie dell’attenzione.
Dopo molti anni siamo tornati a Capri, invitati dai nostri amici di Napoli, è stata una escursione affascinante, tutto è spettacolare in quell’isola che ti regala sensazioni ed emozioni che non si possono scordare.
Siamo scesi dal battello sul molo del porto turistico, pochi metri a piedi e siamo in piazza Vittoria da dove per mezzo di una funicolare si arriva in pochissimi minuti nel centro di Capri, nella famosa piazzetta.
Prima di andare su, approfittando della giornata bellissima e il mare molto calmo, abbiamo fatto il giro dell’isola in barca.
E’ stata un’esperienza stupenda. Appena usciti dal porto abbiamo risposto al saluto di“Gennarino”, una piccola statua collocata appena fuori dal porto su uno sperone di roccia affiorante da un’acqua verde e azzurra.
Procediamo lungo una costa altissima, una roccia calcarea a strapiombo da dove si dice che l’imperatore Tiberio scaraventasse giù i suoi nemici.
Incontriamo fenditure e grotte incantevoli, scorci da sogno; restiamo affascinati dalle bellezze magiche e spettacolari del posto.Poi ci si parano davanti i “Faraglioni” “Maestosi affiorano dalle acque cerulee due enormi baluardi, eterni irremovibili custodi di rotte gia solcate da vascelli di orde saracene, affollate oggi da frotte di romantici abbandoni”. Dicono che quando passano sotto i faraglioni gli innamorati si devono baciare; e allora “rapiti dai sussurri delle onde novelle sirene” in modo spontaneo, quasi ingenuo, io e mia moglie ci siamo trovati abbracciati, ci siamo scambiati un tenero bacio sulle labbra, poi Lei accarezzandomi la tempia con il palmo della mano destra, “scemo” mi dice e riporta di nuovo lo sguardo su quelle meraviglie.
Passiamo davanti a Marina Piccola, una piccola insenatura con davanti il famoso scoglio delle sirene al cui canto siamo rimasti vittime. Il giro in barca continua, arriviamo di fronte a una insenatura con uno stabilimento balneare dell’isola incastonato in un paesaggio di schietta impronta mediterranea, davanti su un piccolo promontorio un enorme, antico faro.
Il viaggio prosegue con le stesse emozioni, passiamo davanti alla grotta azzurra, ma non entriamo a causa della lunga fila in attesa davanti all’ingresso. Contiamo però di tornarci magari durante il periodo estivo.
Sempre in barca, attraversiamo una serie di calette e ulteriori grotte al cui interno l’erosione calcarea e l’azione del mare hanno modellato forme che ricordano statue con soggetto religioso. Poi l’approdo a Marina Grande e la funicolare che ci porta in piazzetta che, per la verità, non ha suscitato grandi passioni per la sua somiglianza a moltissime piazze affollate di molte città italiane.
Caratteristiche e suggestive invece le stradine del centro che passano davanti all’hotel “Quisisana” fino ai giardini D’Augusto realizzati in parte sul “Fondo Certosa”, “uno splendido angolo di mondo dove puoi sentire il profumo dell’eternità lambita, sfiorata appena dal sospiro del mare”.
Giù a sinistra i Faraglioni, a destra la Via Krupp, la strada ideata e realizzata nel 1902 dall’industriale dell’acciaio tedesco A. F. Krupp su progetto dell’ing. E. Mayer; mediante tornanti strettissimi dall’alto porta fino a Marina Piccola.
Secondo qualcuno quella strada “è una opera d’arte, non per modo di dire, ma proprio nel significato estetico della parola”.
“Immersi in questo fortunato angolo di mondo, eterna dimora di calma e di bellezza, viviamo momenti di magia”, sento sulla spalla la tiepida guancia del mio amore mentre la sua mano cerca la mia mano. Mi giro lentamente e Le lascio un tenero bacio fra i capelli.Poi procediamo mano nella mano su questo percorso che lascia senza fiato.
Flavio 46 29maggio2009
[/youtube]http://www.youtube.com/watch?v=vSzYZKfbuYk
lorenzo.RM scrive:
21 maggio 2009 alle 15:26
Cari Popof e Paola, certo le vostre storie vissute sono raccapriccianti, tali da indurre più di un dubbio sull’italiana brava gente. Eppure, non riesco a credere che i nostri connazionali siano davvero razzisti. Vogliamo porre anche questo quesito agli amici di Eldy: a parte gli episodi ricordati dai nostri amici siamo davvero razzisti?
Questo sopra riprodotto è il quesito posto dall’amico Lorenzo a commento ad un mio intervento del 14 maggio (“Raccontiamoci per capire”).
Naturalmente la mia domanda non era questa, era cercare di capire quali sono o sono stati i rapporti interpersonali tra noi italiani e gli stranieri, che hanno determinato una presa di posizione da parte dei ministeri, che ha suscitato tante contrarietà .
La domanda, chiarito il concetto a questo punto appare fuorviante. Merita una risposta?
Certamente si, anche perché, credo, che se il dubbio lo manifesta uno, può essersi insinuato in tanti.
Le risposte che posso dare cerco di darle a me, e in tutta onestà lo faccio a voce alta.
Un preambolo prima: il 20 maggio, durante la trasmissione “Popline”, Radio Popolare ha chiesto ai propri ascoltatori di raccontare eventi di vita a testimonianza di come sono i nostri rapporti con i nuovi vicini. Purtroppo non ho ascoltato la trasmissione, me ne ha parlato mia moglie, e a quanto mi ha detto c’è stata una testimonianza da un paese di una delle valli Bergamasche, che ha raccontato come il posto si sia rivitalizzato grazie all’eterogenea presenza di stranieri, che tra l’altro hanno ripristinato attività commerciali e artigianali scomparse da anni.
Però mi dico, così come ho avuto io l’intuizione di cercare di far parlare chi effettivamente ha qualcosa da raccontare, con lo scopo di far prendere coscienza dei preconcetti che ci avvolgono, anche un network ha avuto la stessa idea: quindi non sono solo, almeno nell’approccio del caso.
Ripeto non so come è andata la trasmissione. So come sono state le risposte alla mia richiesta di storie: un solo racconto che potete trovare nell’archivio di maggio.
Poiché io i dati li ricavo dall’opposto dei fatti, traggo queste conclusioni:
1)La gente si vergogna o non vuole raccontare;
2)La gente non sa raccontare e si fa raccontare la vita dagli altri;
3)La gente non ha nulla da raccontare perché gli elementi in proprio possesso sono fatti insignificanti, o quanto meno non intaccano la propria esistenza più di tanto.
E allora perché tanto accanimento terapeutico nel voler estirpare un problema di pacifica convivenza?
Ecco la risposta Lorenzo, è insita nella domanda, è un problema di convivenza. Sembra ad esempio, (dato statistico), che le liti condominiali affollino più di altre le aule dei tribunali.
E allora visto che gli italiani, mediamente, non sanno rapportarsi gli uni agli altri, visto che non sanno gestire i loro rapporti interpersonali quando c’è in ballo un qualche interesse di confine, di vicinato, di condominio, perché si alimenta il fuoco con campagne che indirizzano in senso univoco la pubblica opinione?
Un problema, è risaputo, non è quello che è ma è quello che uno percepisce.
Certo, atti criminali legati all’immigrazione ce ne sono, ma se guardiamo sempre alle statistiche vediamo ad esempio che:
1) all’incremento della popolazione mondiale non è corrisposto un pari incremento della criminalità (a me non interessa solo l’orto di casa e il cielo sopra l’Italia appartiene al pianeta);
2)chi commette un reato non lo fa in funzione del colore della pelle, lo commette in base alle condizioni in cui vive e si rapporta agli altri;
3)visto l’assunto 2) è molto più probabile, non certo, che a commettere un reato sia colui che sta ai gradini più bassi della scala sociale, la base è più grande del vertice e da più possibilità di confliggere;
4)se chi governa ha due o più problemi meglio che faccia focalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica su un problema esterno, così ottiene due risultati: crea l’antagonista e al tempo stesso ha dei fedeli sudditi.
Ottenuto questo risultato occorre che i sudditi per restare suoi alleati, siano o si sentano dei privilegiati, pertanto il governante deve agire in modo da farli sentire tali. Come? Facendogli pagare meno tasse;
Dandogli la possibilità di soddisfare bisogni secondari;
Fargli sentire il pericolo della perdita dei privilegi;
Farli sentire dei baciati dalla fortuna.
Capisco che uso termini brutali, ma voglio che chiunque legga sia in grado di capire.
Insomma alla luce di tutto questo cosa siamo?
Siamo figli e nipoti di Albertone, siamo mercantili, nel senso che ci mettiamo in vendita, tendiamo a farci accettare utilizzando mezzi e mezzucci (basta guardare i flussi dei voti dal 1948 al 2008).
O siamo un popolo di fifoni con la pistola, pronti a sparare, o meglio ancora a far sparare, per non sporcare mani e coscienza?
O, ancora, siamo sadomasochisti? Ci pieghiamo a un potere più forte masochisticamente per poterlo esercitare sadicamente sugli altri?
Insomma siamo questo o solo questo?
Forse si vorrebbe che fossimo così, ma il condizionamento in molti casi non ha effetto.
E’ diventato uso comune annichilire chi non si focalizza sul nemico esterno, con metodi inquisitori, sviando le domande, facendole diventare da questions accuse di razzismo.
Siamo razzisti? No, è la mia risposta, non è razzismo, è mercantilismo: è lo stare sempre dalla parte del vincente, è quell’andare in processione a farsi benedire.
http://www.youtube.com/watch?v=s1XweGG5M94
Popof 28maggio2009
Stamattina leggendo il corriere della sera mi sono soffermata su quest’articolo di attualità, scritto dal noto giornalista Beppe Severgnini; ve lo ripropongo:
Noemi, quattro cose ovvie
Dal Corriere della Sera del 28 maggio 2009 di Beppe Severgnini.
Un pesce rosso convinto d’essere un cardinale, gli economisti che ammettono di non averci capito niente, la politica fuori dalle nomine Rai, José Mourinho che lavora gratis. Sono molte le notizie surreali che avrebbero potuto colorare questa torrida primavera, ma è toccato a una ragazzina e ai suoi bizzarri rapporti col presidente del Consiglio.
Bizzarri: ecco la parola. Potete essere di destra o di sinistra, atei e cattolici, giovani o meno giovani, ma sarete d’accordo: se uno sceneggiatore avesse scritto un film con quella trama, gli avrebbero detto “Ragazzo, hai bevuto?”. Invece è accaduto. Noemi, le feste, il papi, i genitori, le smentite, i fidanzati che compaiono e scompaiono. I marziani guardano giù dicendo: “E quelli strani saremmo noi?”.
Quattro punti ovvii, per ridurre i litigi e provare a ragionare.
Il primo: la frequentazione tra un settantenne e una diciassettenne – al di là del ruolo di lui – è insolita. La famiglia Letizia non sembra stupita, decine di milioni d’italiani sì. Una spiegazione plausibile ancora non l’hanno avuta. Se tanti lavorano di fantasia, a Palazzo Chigi non possono stupirsi.
Ovvietà numero due. Alcune affermazioni del protagonista sono state smentite. “L’ho sempre vista coi genitori”: poi Noemi – ma cosa s’è fatta? era così carina! – salta fuori alla festa del Milan, sbuca al galà della moda, compare in Sardegna. Per cose del genere, nelle altre democrazie, i potenti saltano come tappi di spumante. Noi siamo più elastici – succubi, rassegnati, distratti, disinformati: scegliete voi l’aggettivo – ma un leader politico, perfino qui, dev’essere credibile.
Ovvietà numero tre. Le abitudini e le frequentazioni di Silvio B. riguardano solo Veronica L. (che peraltro s’è già espressa con vigore sul tema)? Be’, fino a un certo punto. Il Presidente del Consiglio guida una coalizione di governo che organizza il Family Day, mica il Toga Party o il concorso Miss Maglietta Bagnata. Michele Brambilla – vicedirettore del “Giornale”, bravo collega e uomo perbene – spiega che, per il mondo cattolico, contano le azioni politiche, non i comportamenti coerenti. Io dico: mah!
Ovvietà numero quattro. L’opposizione, in tutte le democrazie, cerca i punti deboli dell’avversario, soprattutto alla vigilia delle elezioni. Dov’è lo scandalo, qual è la novità? Se Piersilvio s’indigna, non ha idea di cosa avrebbe passato suo padre in America, in Germania o in Gran Bretagna (dov’è inconcepibile che i capi di governo possiedano televisioni). Non solo in questi giorni: negli ultimi quindici anni.
Bene: quattro cose ovvie, in attesa di sviluppi. Intanto s’è insediato quietamente il governo Letta. Qualcuno che coordini ci vuole. C’è da lavorare, e il Capo è altrove.
Beppe Severgnini
Che ne pensate? Che opinione avete voi? Siete d’accordo o no col giornalista?
Al termine della seconda guerra mondiale il cinema italiano si trova ad affrontare una situazione per molti versi inedita: la domanda di spettacolo cinematografica, che non si è interrotta negli anni del conflitto, diventa altissima fin dai primi mesi della Ricostruzione, tanto che le sale cinematografiche sono tra i primi edifici ad essere ristrutturati, e ad esse si aggiungono innumerevoli nuovi spazi di proiezione.
Nel giro di poche stagioni ogni comune di rispettabili dimensioni ha la sua sala cinematografica, mentre in tutte le città (soprattutto nelle periferie popolose) si costruiscono luoghi di proiezione moderni, spaziosi, pensati per un pubblico numeroso.
A questa diffusione capillare dello spettacolo cinematografico corrisponde un ritorno al predominio hollywoodiano sui nostri schermi, dopo gli anni del blocco delle importazioni legate ai fatti bellici e alla politica autarchica che comprende anche il cinema; e corrisponde una precarietà dell’apparato produttivo nostrano che non sarà mai superata da una programmazione industriale del cinema italiano.
Tra domanda e offerta si crea subito un circuito virtuoso, con il numero di biglietti staccati che cresce anno dopo anno fino a raggiungere nel 1954 la cifra considerevole di 700 milioni d’ingressi, e il primo problema che si pone per produttori e registi interessati a un cinema popolare è come individuare un prodotto che possa essere competitivo con le produzioni americane, che sfoggiano budget superiori, fascino spettacolare e attori di fama mondiale, senza contare il fascino di provenire dal paese che ha vinto la guerra.
Il neorealismo cerca di rispondere a queste sollecitazioni sul piano politico, raccontando in vario modo il paese che ha appena vissuto l’esperienza di una guerra disastrosa; nelle sue punte più politicizzate, il cinema neorealista è fin da subito fenomeno ideologico ed estetico, occasione di dibattito e di schieramento, chiamata a raccolta per una generazione cinematografica cresciuta all’ombra del protezionismo fascista, ma che ha più volte manifestato con la scrittura critica una certa insofferenza per la produzione cinematografica del ventennio; tracce di neorealismo, considerando le strategie produttive in esso indicate, sono comunque riscontrabili in molta produzione corrente dell’immediato dopoguerra, viste le condizioni precarie con le quali si girano i films.
Il neorealismo nato appena dopo la seconda guerra mondiale vuole rappresentare la quotidianità, quello che succede ogni giorno, quasi trasformando la realtà in un documentario, “servendosi sovente di individui presi dalla strada in luogo di attori professionisti”.
A causa dei limitati mezzi a disposizione si deve girare nelle strade, nei luoghi dove effettivamente sono avvenite i fatti che si raccontano; con la conseguenza che da codeste apparenti limitazioni scaturisce la realtà del mondo di allora in aperto contrasto con le idee di solennità e maestosità del regime, denunziando anzi la crudeltà o l’indifferenza dell’autorità costituita.
Con il termine di “nuovo” realismo si tende a rimarcare la necessità di affermare il carattere inedito della corrente. Per distinguerla evidentemente da precedenti esperienze realistiche di talune pellicole prodotte nel periodo del muto – “Sperduti nel buio” (1914) di Nino Martoglio e “Assunta Spina” (1915) di Gustavo Serena, anche se altre alcune opere di Blasetti (“Terra madre” – “1860“, del 1931 e del 1934) tendevano a differenziarsi dai canoni imposti e pretesi dal regime.
Ma i veri segnali del nuovo si ebbero con la demolizione della cappa di “decoro e di perbenismo” ancora con Blasetti “Quattro passi fra le nuvole” (1942) e Vittorio De Sica “I bambini ci guardano” (1943), ma contribuì più di tutti alla nuova aria Luchino Visconti che con “Ossessione” (1943) finalmente porta sullo schermo le vere condizioni di assoluta povertà della gente in una Italia che versava nella più assoluta povertà e disperazione.
“Ossessione” incontrò non pochi ostacoli dalla censura, fu uno degli esempi più rigorosi e validi di cinema della realtà, mostrò uno spaccato critico di certa provincia italiana agli antipodi di quella contenuta nella cinematografia fascista tutta intenda a mascherare la realtà italiana dietro la retorica.
Il neorealismo può dirsi che nacque con “Roma città aperta” girato da Robero Rossellini nel 1944-45 dove le immagini spoglie di una realtà colta all’improvviso nella Roma occupata dai nazisti vengono trasformati in elementi di una dolorosa tragedia.
Con “Sciuscià” 1946 – “Ladri di biciclette” – 1948 – “Miracolo a Milano” 1950 – “Umberto D” 1951 si ritrova il gusto di una realtà popolare italiana colta quasi sempre con spontaneità e freschezza ma con partecipazione più sentimentale che morale e politica.
Nei film neorealisti, per cui si teorizza la coralità e lo scegliere gli attori «per la strada, tra la gente comune», l’attenzione per i protagonisti è tutt’altro che sopita: Roberto Rossellini in Roma città aperta (1945), il film che, come si è detto innanzi, apre la stagione neorealista, propone in chiave tragica due attori popolarissimi nel teatro brillante quali Aldo Fabrizi e Anna Magnani.
Si tratta del film delle difficoltà superate. Il teatro di posa è stato improvvisato in un vecchio padiglione che un tempo serviva per la corsa dei cani. Mancando l’impianto per la colonna sonora le voci vengono registrate a parte.
Ma il neorealismo in senso pieno è solo una parte del cinema italiano del secondo dopoguerra, perché registi e produttori cercano anche altre vie che risultano immediatamente più redditizie: pescano tra i comici che calcano i teatri dove si rappresentano il varietà e l’avanspettacolo, attingono alla tradizione musicale classica e leggera, propongono adattamenti dei classici europei dell’avventura.
I protagonisti italiani dell’anteguerra sono ormai inadeguati ai gusti del pubblico popolare, incapaci di competere con il solido star-system hollywoodiano, programmato industrialmente e sostenuto da una capillare presenza nei rotocalchi dedicati allo spettacolo, che rappresentano nel periodo un fenomeno di ampie dimensioni.
Le dive dei telefoni bianchi, quando non si ritirano (come Chiaretta Gelli) o non tentano l’avventura americana (come Alida Valli), cercano di riciclarsi accettando ruoli molto diversi da quelli che hanno procurato il loro successo: Carla Del Poggio e Adriana Benetti sono due prostitute rispettivamente in Senza pietà (Alberto Lattuada, 1948) e in Tombolo,paradiso nero (Giorgio Ferroni, 1949), mentre ruoli minori allungano le filmografie di Maria Denis, Assia Noris, Clara Calamai e molte altre. Anche per i divi più amati dal pubblico il momento è diffìcile: il Gino Cervi indomabile spadaccino in Don Cesare di Bazan (Riccardo Freda, 1942) non può reggere il confronto con la prestanza fisica di Errol Flynn o di Tyrone Power, e in generale le avventure all’italiana non hanno il ritmo incalzante e la capacità fascinatoria di quanto arriva da Hollywood. Produttori e registi propongono cosi uno star-system nostrano più aggiornato setacciando i concorsi di bellezza e il teatro, ma anche i fotoromanzi (all’epoca molto letti), il mondo della canzone, persino la cronaca.
Ma questa è un’altra storia.
flavio.46 28/ 05/ 2009
Dopo alcuni decenni di abbandono, fu resa nuovamente giorno di festivo nel
2000 su richiesta del secondo governo Amato per impulso principalmente all’ora
Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Di fatto è la principale
festa Nazionale. In questa data si ricorda il referendum indetto a sufragio
universale per il 02 Giugno del 1946 si celebrò libere elezioni, le prime dal
06 Aprile 1924, dove in un clima di violenze, irregolarità si svolsero le
elezioni politiche (il partito fascista ottiene 85% dei voti) Nei giorni 2-3-
Giugno 1946, vennero consegnati a tutti i maggiorenni, e per la prima volta
per la nostra storia anche il primo voto alle donne Italiane , che attraverso
capacità,sapere e lavoro hanno dimostarto il loro impegno politico e sociale,
(va ricordato che allora l’età era 21 anni per essere maggiorenne), delle
schede per scegliere fra Monarchia e Repubblica, e quella per l’elezione dei
deputati dell’Assemblea Costituente, a cui sarà affidato il compito di redigere
la nuova Corte Costituzionale,come stabilito con Decreto Legislativo
Luogotenziale n°151 del 25 Giugno 1944. Dopo 85 anni di Regno, con 12.718.641
voti contro 10.718.502 l’ITALIA divenne Repubblica e i Monarchici di casa
Savoia vennero esiliati. Il 18 Giugno 1946 la corte di Cassazione proclamò
ufficialmente la vittoria della Repubblica.
In questa occasione spero che tutti gli Italiani vogliono stringersi
attorno ai nostri militari, alle Forze dell’ordine, che esercitano tra noi
funzione essenziale dello stato quale è la tutela della sicurezza. Accanto ad
esse va ricordato e ringraziato coloro che operano, sempre per la nostra
sicurezza, il corpo della Protezione Civile. In questo giorno di festa il
pensiero va a tutti coloro che hanno contribuito offrendo la propria vita per
quelli ideali di unità della Nazione, di libertà che è nostro dovere custodire
e trasmettere alle nuove generazioni. W.l’ITALIA.
Questa lettera scritta da Dacia Maraini e indirizzata a Veronica Lario riscontra in pieno il mio pensiero di solidarietà nei confronti della Lario , e di tutte le donne che, se pur con meno ricchezze e potere dell’ex coniuge, si trovano in uno stato di sconforto.
Cara Veronica, questa lettera giace sul mio tavolo da settimane. Mi tratteneva il riserbo di fronte a una persona riservata come lei.
Ma quando ho letto che si sente sola e abbandonata ho pensato che era giusto comunicarle pubblicamente la mia solidarietà.
Che le assicuro è la solidarietà di molti italiani, sicuramente più di quanti lei sospetta. La mia è una solidarietà impregnata di indignazione.
Il linciaggio nei suoi riguardi, soprattutto dai giornali vicini a suo marito, è feroce, rancoroso e punitivo.
Vorrei ricordare loro che la brutalità che usano, oltre a colpire lei, ferisce tutte le donne.
Perché denuncia una mentalità razzista, un atteggiamento culturale offensivo nei riguardi dell’altro sesso. Come a dire: tacete e state a casa.
Qualsiasi prepotenza o abuso denunciate certamente sarà per ragioni volgari: gelosia, invidia, paura di perdere potere e denaro.
Purtroppo non si tratta di una novità: sta montando di questi tempi una nuova misoginia, fatta di una falsa ammirazione per le bellezze femminili che nasconde aggressività e disprezzo.
Un virus insinuante che ha contagiato, oltre una quantità di settimanali e di giornali anche molto linguaggio della classe politica, e appare tutti i giorni, brillante e festosa, in tante trasmissioni che entrano nelle case italiane.
Come interpretare questa rabbiosa intolleranza verso il genere femminile?
Forse le donne stanno diventando troppo brave: le migliori nelle università, le migliori nella pedagogia scolastica, le migliori in tante professioni.
Questo certamente mette in discussione la supremazia culturale maschile che per molti deve rimanere alla base del rapporto fra i sessi. Altrimenti «botte», come strillano i prepotenti.
Anche nel suo caso si sta ricorrendo alle «botte» mediatiche.
Perché taccia.
Cosa conta la sua dignità, il suo pensiero, le sue preoccupazioni di fronte a un marito che, secondo lei, è caduto in preda a una erotomania senile?
Più i giorni passano e più risulta chiaro che le parole dure ma limpide da lei pronunciate non solo dichiarano il vero, ma rivelano solo una parte della gravità della situazione.
Un uomo dalla grande responsabilità politica che si è esposto gridando e minacciando la propria moglie che lo redarguisce e gli chiede con fermezza il divorzio non è né dignitoso né onorevole.
Qualcuno ha strillato al tradimento, qualcuno alla calunnia, qualcun altro al moralismo bigotto. Ma tutti sanno che un uomo che rappresenta una nazione non può comportarsi come un cittadino qualsiasi.
La sua condotta deve, non dico essere esemplare, tutti possono sbagliare, ma non può trascurare la trasparenza.
Doppiezza e menzogna sono pericolosi per un governante, in quanto si prestano ai ricatti.
I cittadini hanno il diritto di sapere se un loro governante sia in condizioni gravi di doppiezza e ricattabilità.
Questo non significa fare del moralismo, come è stato scritto, ma credere in una tenuta pubblica che deve suscitare stima e fiducia.
Dacia Maraini
27 maggio 2009
Le ultime festività pasquali le abbiamo trascorse, mia moglie ed io, a Padova, ospiti di mio figlio. Siamo arrivati a Padova nella stessa giornata in cui, a scuola, finivano le lezioni, lasciando il posto alle vacanze che sarebbero iniziate dal giorno successivo. Per fare una sorpresa al mio nipotino, Francesco, sono andato a rilevarlo, al posto di sua madre, all’uscita dalla scuola.
Grande è stata la gioia di Francesco nel vedermi e, dopo gli abbracci e le domande “di rito”, mi ha centrato, come con un cazzotto a freddo, in pieno stomaco, con questa domanda: “nonno, tu che sai tutto, dovresti spiegarmi, per favore, in maniera esaustiva (sic!), il significato della morte”. Mi sono reso conto che ad un adolescente di prima media, di undici anni, non potevo parlare come ad una persona adulta e, preoccupandomi di non infliggergli traumi psichici, avuto riguardo alla materia trattata, gli ho risposto pressappoco così: “caro Francesco, nessuno mi ha mai fatto prima una domanda del genere. Intanto, temo che tu abbia di me un’opinione troppo lusinghiera. Forse mi consideri un’enciclopedia, quale vorrei essere, ma non sono. Sono un vecchietto, e non perché sia un matusalemme, che da tanti anni bruca l’erba del sapere, della conoscenza, né più né meno di come faccia tu, di come faccia il tuo papà, di come facciano un po’ tutti quelli che hanno voglia di assumere un minimo di conoscenze e di aggiornamenti. Forse tu scambi la mia disponibilità, la mia gioia nel parlare con te, con qualcos’altro. Quando ero più giovane ed il tuo papà aveva la tua età, anch’io mi soffermavo poco a parlare con lui che, poverino, a sua volta si rivolgeva al nonno od a qualche zio per sapere qualcosa che non conosceva. Tutto qui.
Per quanto riguarda, poi, la domanda specifica che tu mi hai rivolto, al momento mi sento di poterti dire soltanto che la morte è la fine di un ciclo esistenziale. Questo vale, credo, per gli uomini, per gli animali, per le piante. Poi, ci sarebbero altri concetti, per rendere più “esaustiva” la risposta. Ma sono concetti che riflettono, nel tempo, i più variegati punti di vista, espressi da filosofi, umanisti, dottrine religiose. Credo che tu, per poter conoscere le definizioni di questi concetti ed ampliare le tue cognizioni, debba attendere (quando sarà tempo), lo studio della filosofia, delle religioni, delle consuetudini dell’Uomo nei secoli. Nel frattempo, non fartene un cruccio, vivi la tua vita serenamente e spensieratamente poiché quello che sai, sulla vita e sulla morte, è di per sé sufficiente a farti essere l’ottimo ragazzo che sei”.
La domanda postami dal mio nipotino mi ha arrovellato il cervello per tutto il tempo di mia permanenza a Padova. Tornato a Brindisi e certo di non saperne “in modo esaustivo” dell’argomento, sono andato alla ricerca per rinfrescarmi la memoria e per soddisfare una mia esigenza intima. Ho rivisto il pensiero di vari filosofi, umanisti. teologi, da Marco Aurelio a Leibniz, da Plotino a Shopenhauer, Sant’Agostino fino a Dilthey, Heidegger ed anche ai più recenti. Ho esaminato riviste scientifiche universitarie.
Ciò che più mi ha colpito è stato l’aspetto di negazione della morte nella società laica, ossia nella cosiddetta società secolare. Credo valga la pena sottoporre alla vostra riflessione, amiche ed amici di Eldy, ciò che sono riuscito a focalizzare perché di più mi ha colpito.
Ripercorrere il cammino del “senso della morte”in Occidente è stata una delle imprese storiografiche più suggestive del declinare del secolo ventesimo. Di fronte ad un sistematico e quasi ossessivo occultamento della morte –segno di una sfida non ancora vinta e forse mai vincibile – l’uomo occidentale ha voluto rivisitare, sotto questo aspetto, il suo passato per essere aiutato a leggere più in profondità il suo presente ed il suo stesso futuro.
Il tema della morte non può essere affrontato fuori del nuovo orizzonte aperto dalla scienza e dalla tecnologia. Gli ultimi secoli della storia dell’Occidente sono stati caratterizzati dalla progressiva scoperta delle leggi della vita e dalla graduale acquisizione alla scienza di “territori” che sembravano essere destinati a sfuggire per sempre alla sua presa. L’uomo rimane un mistero, ma un mistero largamente esplorato, in cui restano alcune zone d’ombra che, si spera, potranno essere a poco a poco illuminate. La stessa origine della vita ha perduto, in larga misura, la sua oscura sacralità ed è stata analizzata in tutte le sue dimensioni. La vita è diventata “manipolabile” e in qualche misura “costruibile” artificialmente: le nuove tecniche procreative sembrano avere consentito il valico del confine fra sapere e potere.
Ciò che è stato possibile nella fase d’origine – con il conseguente, quasi completo, assoggettamento della vita iniziale alla scienza – rimane ancora difficile e problematico a livello terminale: la morte resta fuori del quadro del dominio della tecnica; può essere rinviata, forse a scadenze fino a ieri inimmaginabili, ma non può essere né elusa, né superata e rimane lì a ricordare che l’uomo è un essere finito e che il superamento della finitezza è possibile, semmai, soltanto su un piano diverso da quello della pura e semplice vita biologica.
La morte finisce così col mettere in discussione la vita stessa, che può diventare, secondo la tragica espressione di Heidegger, un “essere per la morte”. Ma è appunto questo ciò che la scienza e la tecnica – a differenza della religione e della filosofia – non riescono ad accettare. Di qui l’ eclissi della morte nella società contemporanea: non potendo eliminarla, l’uomo la esorcizza, occultandola ed emarginandola.
Gioca un ruolo decisivo, in questo processo, il fenomeno della secolarizzazione, soprattutto nella sua dimensione scientista, all’interno della quale è la scienza che dà finalmente le risposte che le religioni non avevano saputo offrire. Non vi è, sotto questo aspetto, problema al quale non si possa dare, prima o poi, una soluzione: resta all’interno delle scienze, come delle religioni, la prospettiva del rinvio, ma si tratta qui di un rinvio “storico” – il “non ancora”, che tuttavia presto verrà – e non di un rinvio “escatologico”, ad altri cieli e ad altre terre.
In questo contesto la morte appare uno “scacco”, e, dunque, deve essere rimossa dalla coscienza e, in quanto possibile, dominata.
La spinta così fortemente presente, nella nostra cultura, all’eutanasia, va letta esattamente in questa direzione, quasi come tentativo disperato di appropriarsi, seppure in forma negativa, della morte. Non potendola impedire, ma al più soltanto rinviare, l’uomo contemporaneo tenta di assoggettarla a sé, di gestirla, di esserne padrone, di deciderne dunque i tempi e le modalità. Ma è questo, in realtà, un “dominio” surrettizio e camuffato, perché la morte non si lascia né imbrigliare, né imprigionare ed alla fine la stessa scienza deve riconoscere la propria sconfitta.
L’intero atteggiamento dell’ Occidente nei confronti della morte può essere letto così in termini di “rivelazione” e di “occultamento”. La stagione religiosa è stata quella della rivelazione non solo della realtà della morte, ma del suo senso profondo: della morte si parlava come di un aspetto della vita, con essa ci si confrontava e ad essa ci si preparava. La morte era inserita nella vita ed insieme veniva sentita come transito o come passaggio.
Nel momento in cui, con l’avvento della società secolare, la morte ha smarrito agli occhi di molti il suo significato religioso e la categoria “di passaggio” (che presuppone, ovviamente, un “al di là”) ha perduto il suo significato, rimane soltanto il concetto di “fine” o di “termine”; ma è proprio questa finitezza e questa terminazione , che l’uomo occidentale non riesce più ad accettare, che lo induce, conseguentemente, all’occultamento.
Poche “spie” sono, al riguardo, più eloquenti del “linguaggio”, che edulcora e stempera la parola “morte”, sostituendola con una serie di eufemismi che, appunto, cercano di nascondere una realtà sgradita, imprevista, in qualche modo inaccettabile da chi aveva presunto di poter dominare il mondo e che alla fine deve ancora fare i conti con la morte. Si trasferisce la morte lontano dalla casa, in ospedali in cui pochi soltanto, talvolta da lontano, possono assistervi; si seppelliscono i morti fuori dalla città, in spazi che vengono in qualche modo eclissati e sono oggetto di nuovi, oscuri “tabù” dell’uomo tecnologico; si evita persino di parlare ai bambini di coloro che sono morti per non turbare, si pensa, il tranquillo candore con traumatiche rivelazioni di un’improvvisa assenza.
Nonostante tutto, peraltro, la morte continua a percorrere le strade dell’Occidente opulento e tecnologico; rimane compagna dell’uomo anche nell’età delle scoperte scientifiche. Ritornare al passato, confrontarsi con la schiettezza e con la stessa, pur drammatica, “tranquillità” con la quale si guardava alla morte, la si accettava e talora la si attendeva, contribuisce ad esorcizzare il trauma della morte, a ricollocarla al suo giusto posto, quello di punto terminale, e, in qualche modo, di maturazione e di pienezza, del grande ciclo della vita. La morte, amiche ed amici, è un evento fisiologicamente irreversibile.
Franco3.br (già Fgiordano.br)
Dopo l’Invidia, vogliamo parlare un po’ dell’Accidia, sentimento complesso di disagio psichico, radicato nell’animo umano?
Il termine deriva del greco: a (alfa privativo= senza) keidon (= cura), sinonimo di indolenza.
Accidia indica negligenza, indifferenza, mancanza di cura e di interesse per una cosa. Richiama anche l’abbattimento, lo scoraggiamento, la prostrazione, la stanchezza, la noia e la depressione dell’uomo di fronte alla vita.
In questo smarrimento estremo, si produce uno stato d’animo che intacca e rischia di disorientare tutto ciò che incontra sul suo cammino. L’uomo non padroneggia più la sua vita: le vicende inestricabili lo avvolgono, ed egli non sa più vederci chiaro.
L’accidia è caratterizzata da un aspetto complesso e confuso. Chi ne è colpito, avverte un senso di disordine e di illogicità, in cui si intrecciano reazioni contrastanti, si detesta tutto ciò che non si ha e si desidera ciò che non si ha. A causa dell’angoscia e dell’ansietà, la vita appare senza più punti sicuri, senza certezze, come se poggiasse su una superficie ondeggiante.
Altri sintomi dell’accidia sono l’indifferenza e l’instabilità. Questa si manifesta in vari modi: dal cambiare spesso casa o lavoro, dall’instabilità dell’umore all’instabilità di giudizio, da quella dei rapporti interpersonali alla sfiducia verso se stessi.
Pascal diceva: “ Ho scoperto che tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola causa, dal non saper starsene in pace, in una stanza”.
Un ulteriore sintomo dell’accidia è lo sconforto, l’impossibilità per l’uomo di vedere alcunché di buono e di positivo: tutto viene ridotto al pessimismo e alla negatività.
Una delle cause più frequenti dell’accidia è l’amore smodato verso se stessi, che porta ad essere prigionieri del proprio io. E ancora altre due cause, apparentemente contraddittorie: l’ozio e l’attivismo.
Il primo è la mancanza di occupazioni, di interessi, che rendono la vita quotidiana amorfa, che si trascina faticosamente. Il secondo, lavoro e impegni eccessivi, che creano molti punti di riferimento dispersivi, non collegati fra loro, che possono provocare uno stato di accidia: il compito intrapreso era al di là delle proprie forze e si crolla.
Per combattere questo sentimento negativo occorre riacquistare l’equilibrio necessario, per affrontare i vari aspetti della propria vita.
La saggezza e la volontà necessarie per raggiungere tale risultato nascono dalla consapevolezza dei propri limiti e dalle possibilità che sono in noi, che permettano un reale dominio di sé.
Altri rimedi per l’accidia sono la pazienza e la stabilità. Perseverare nel quotidiano, senza “sognare la vita”, fuggendo dalla sua precarietà.
Ciò comporta una rinuncia a tutte quelle illusioni che ci appaiono come alternative al presente; comporta accettare se stessi e gli altri, accogliere le fatiche dei propri impegni o il peso della comunità in cui siamo inseriti.
Per combattere l’accidia, insomma, bisogna ritrovare uno scopo e riprendere gusto per una nuova vita.
Aforismi sull’accidia
-Il lavoro mi piace, mi affascina. Potrei starmene seduto per ore a guardarlo. (Jerome K. Jerome)
-La cosa più deliziosa non è non aver nulla da fare: è avere qualche cosa da fare e non farla! (Marcel Achard)
-Un pigro è un uomo che non fa finta di lavorare. (Nicolas de Chamforet)
-I momenti d’ozio sono intervalli di lucidità nei disordini della vita. (Ambrose Bierce)
Giovanna3.rm 25.05.2009
Due botti. Due spari? Forse ragazzi che giocano con i petardi?
Esco coi cani. Ancora due botti. Avranno paura i miei compagni? No, andiamo.
Cento metri e siamo in campagna, il canale di fianco alla stradina scorre silenzioso portando acqua ai campi.
Le edere hanno mantenuto il loro posto intorno ai tronchi di robinia, avanzano i rovi e un caprifoglio comincia a spandere il suo profumo.
Quanti fiori selvaggi dai nomi a me sconosciuti, conosco solo i colori: giallo, turchese, bianco, rosso e il verde del mais che ogni due giorni raddoppia in altezza.
Due botti ancora. Sarà che stanno macellando mucche e maiali?
Illy, uno dei due cani, finalmente liberi dal guinzaglio, al rumore degli spari si ferma e torna a casa.
L’altro, giovane e con qualche gene da caccia, corre contento a tuffarsi in acqua. Andiamo verso le cascine, le mucche sono tutte nelle stalle e i botti, a coppie, continuano.
Poi incontro uno dei miei vicini di casa con i suoi cani.
Mi dice di aver incontrato Illy lungo la strada. Rispondo che sa dove andare, ha avuto paura degli spari.
Così mi informa che sono le guardie venatorie del corpo forestale della provincia che sparano ai piccioni che invadono le zone intorno alle stalle sino a spingervisi dentro, portando malattie alle mucche.
Azione preventiva per il bene della salute pubblica.
Stamattina girando in campagna ogni tanto ho incontrato ciuffi di piume. Le carcasse dei piccioni abbattuti no. Di sicuro altri animali hanno approfittato dell’improvvisa abbondanza di cibo.
Non gli scoiattoli o le anatre. Di sicuro il banchetto l’han fatto le cornacchie e le pantegane.
Come mai mi chiedo così tanti piccioni e colombacci? Abbondanza di cibo prima di tutto, poi la progressiva diminuzione della presenza dell’uomo sostituito dalle innocue macchine.
Eppure colombi e piccioni sono stati portatori di buone notizie: Mosè sull’arca lesse la fine del diluvio nel becco di un piccione; uccelli annunciarono a Colombo la vicinanza della terra. Anche la nascita di Roma è legata ad un volo di uccelli.
Oggi ci danno fastidio, sono un pericolo, tranne raccoglierne il guano in isole lontane per ricavarne profumi.
A ognuno le proprie considerazioni, lasciatemi un commento se trovate somiglianze con il vostro quotidiano vivere.
Ricordate sui muri “W VERDI” significava “W Vittorio Emanuele Re D’Italia”. Manzoni scrisse i Promessi Sposi indietro nel tempo di qualche secolo per non subire la censura austriaca.
P.S. : oggi insieme ai piccioni sono volati via anche gli uccelli insettivori, mosche e zanzare ci han preso d’assalto.
Popof 26maggio2009
È successo a Milano ed io riporto integralmente dal Corriere della Sera di Gianni Santucci
Esasperazione per l’attesa troppo lunga e l’afa soffocante.
E i passeggeri «sequestrano» il tram
«Adesso lei ci porta a casa. Punto».
Non aggressivi. Abbastan¬za educati. Ma irremovibi¬li. Occupano i binari quando sono da poco pas¬sate le sette e mezza di lunedì pomeriggio e loro han¬no già aspettato «più di mezz’ora». Piccola som¬mossa dei passeggeri sul tram della linea 1, tra via Vitruvio e via Settembri¬ni. Sommossa improvvi¬sata che alla fine ha suc¬cesso. E un tram che sa¬rebbe dovuto andare drit¬to in deposito viene «di¬rottato ». Cambia pro¬gramma e porta le perso¬ne a casa. «Perché la pa¬zienza dei cittadini ha un limite» dicono gli «agita¬tori».
Gente civile che s’è ribellata al termine di uno dei pomeriggi più caldi delle ultime settima¬ne. E sulla pazienza, l’afa soffocante ha un peso. La sequenza degli eventi pare sia iniziata intorno alle 19: i passeggeri iniziano a raccogliersi alla fermata, passano i tram delle altre linee, ma non l’1. Ad aspettarlo sono sempre più persone, che si lamentano. Si tranquillizzano quando vedono un tram avvicinarsi, e salgono, «ma a quel punto — racconta uno dei passeggeri — il tranviere ci ha detto che doveva andare in deposito».
Prima ribellione: «Invece ci porta a casa, è già troppo tempo che aspettiamo». Si arriva a un accordo, perché dietro c’è un altro 1 in arrivo. I passeggeri scendono, ma al momento di salire sull’altro tram notano il cartello «deposito». Ed esplodono. Occupano i binari. La conducente dice: «Ma io devo eseguire gli ordini». Risposta: «Li faccia cambiare, questi ordini». Telefonate e conciliaboli. Un po’ spaesata, alla fine, la tranviera dice: «Ok, andiamo».
Che ne pensate? Hanno avuto ragione i cittadini? Che avreste fatto se foste stati al posto della tranviera?
paolacon 26 maggio 2009
Sono di fronte a uno dei più bei dipinti di Rembrandt, famoso in tutto il mondo e conosciuto con il nome “la ronda di notte”.
Un capitano sta impartendo un ordine, e tutta la compagnia si mette in movimento. Si tratta di un ritratto di guardie civiche come non se ne era mai visto uno prima. Non sono ordinatamente allineate come voleva la tradizione; ogni personaggio è attivo nel compito che gli è stato assegnato ed è lo spettacolo emozionante di uomini in azione. L’alfiere solleva lo stendardo, il tamburino comincia a rullare sul tamburo, le guardie afferrano le loro armi e una fanciulla, in guisa di mascotte, si aggira fra loro. Su tutto il quadro una luce e un’ombra che danno il senso della notte e mettono in risalto i volti, rendendo la scena ancora più dinamica.
È la compagnia degli archibugieri di Amsterdam.
Siamo nel 1600 e l’Olanda non fu mai così ricca e potente, come in questo secolo, detto “il secolo d’oro”. In questo periodo era uno dei più importanti paesi d’Europa, ricco grazie ai commerci e alla navigazione, con cui i mercanti acquisirono vere fortune e l’arte e la cultura conobbero una splendida fioritura.
In questo contesto ci si doveva anche difendere e nacquero così le compagnie sotto l’egida di varie armi, come questa degli archibugieri.
La data del quadro è: 1642. Fu commissionato a Rembrandt dai ricchi partecipanti della milizia.
Già circa quarant’anni dopo, un critico dell’epoca, riconobbe la grandezza del dipinto dicendo: ” In verità, quest’opera, comunque possa essere censurata, sopravvivrà a tutte quelle che con essa vogliono competere, poiché è così pittoricamente concepita, così focosamente movimentata e così potentemente eseguita, che tutti gli altri dipinti presenti le figurano accanto come carte da gioco”.
Naturalmente di fronte a tanta maestà ed a tale soggetto, non posso fare a meno di fare un parallelo e una riflessione: ma siamo ancora nel ’600 da aver bisogno in Italia di ronde di privati cittadini per difenderci? Gia’ con l’Illuminismo, nel 1700, erano sparite. “Saranno i volontari della sicurezza”, come li ha definiti il ministro dell’Interno, Roberto Maroni.
Già la sola parola ronde evoca fantasmi del passato, purtroppo.
Il quadro di Rembrandt fu commissionato da privati cittadini che guidavano “le ronde”, ma siamo nel 1600, dopo le grandi guerre di religione, quando Thomas Hobbes nel Leviathan scrive che «la paura di perdere la vita o solo di rischiare di perderla è la passione che induce gli individui, indistintamente tutti, a desiderare di rinunciare a una parte della loro libertà di decidere su che cosa fare per proteggersi, per consegnarla al sovrano in cambio di sicurezza ».
Ed è questa la forza su cui si regge uno stato solido. La protezione deve venire dallo stato e non dai privati cittadini organizzati in armate che ricordano “l’armata Brancaleone”.
Leggo sul web: ” Pensare di applicare il principio di sussidiarietà alla funzione di sicurezza pubblica è non solo profondamente sbagliato, perché è una funzione non privatizzabile, ma è anche terribilmente pericoloso. Attribuire a dei privati cittadini, organizzati in ronde, compiti, diretti o indiretti, di sicurezza pubblica costituisce una violazione dell’inderogabile principio del monopolio pubblico dell’uso legittimo della forza, sul quale si fonda lo stato di diritto”.
Adesso io mi domando: non siamo più nel 1600, abbiamo una polizia di stato, un’arma dei carabinieri efficiente, non sarebbe il caso di potenziarle creando così anche altri posti di lavoro?
E poi non sarebbe il caso di dare il compito di redigere i passaporti, i permessi di soggiorno ed altro, a semplici impiegati, invece che a militari, mille volte più utili in compiti esterni?
Mi assale un dubbio ancora: quanto i singoli cittadini, concretamente, sono preparati a dare sussidio alla polizia regolare? Non sarà che poi parteciperanno alle ronde cittadini esaltati che devono dimostrare di essere qualcuno?
Secondo la mia opinione, le ronde non sono la risposta ai problemi di sicurezza del paese.
paolacon 25 /05 /2009