http://www.youtube.com/watch?v=NksnPsh_oFE
Durante i dieci lunghi anni dell’assedio a Troia, chi tenne compagnia ad Agamennone & company, in quelle lunghe notti?
Sembra che anche a quel tempo molte madri offrissero le figlie a re e generali al solo scopo di garantirsi una progenie forte e vigorosa, oltre che aggraziarsi un potenziale vincitore, e avere a disposizione qualche mezzo in più per sopravvivere. La storia è piena di notizie e di racconti che a margine dei campi di battaglia, negli accampamenti, non solo sangue sorresse a fiumi.
D’altronde finita una guerra la vita continua e nuove risorse servono per ricostruire: meglio muoversi per tempo.
Anche oggi, con queste guerre combattute a distanza di sicurezza, gli accampamenti rivivono le amene tensioni di un tempo.
Passato il ciclone Gheddafi, sulla pista rimangono i resti di quello che il vento ha smosso.
Alla domanda di uno studente sulla democrazia, il colonnello rispose con la sua traduzione, non demos-popolo e kratos-potere, come studiamo a scuola, ma spiegando che «Demos in arabo vuol dire popolo e crazi vuol dire sedia. Cioè il popolo si vuole sedere sulle sedie».
Ed ecco dall’accampamento di Bari giungono notizie di tentazioni e approcci per garantirsi una potenziale candidatura a cariche elettive, di potenziali veline con laurea 110 1ode, (come se Carlo Conti non avesse già delle prof. alla “Eredità”).
Non voglio difendere in questa sede il Presidente del Consiglio dalle infamanti accuse che gli si muovono dai giornali: è uno che si è fatto da solo (ricordate Tele Nord, oggi Italia1, alle 0re 24,00 sul finire del ’78?).
Pover’uomo con tutti i problemi che ha con le ex mogli, anche questa dell’attenzione verso giovani veline diventa troppo. Uno non fa in tempo a farsi crescere un pelo che subito gli invidiosi gli sparano addosso con l’accusa di gallismo. E se semplicemente stava cercando elementi nuovi per le sue guardie del corpo?
Il colonnello non era forse scortato da 40 belle e forti amazzoni? Che qualcuno gli abbia mosso un’accusa del genere al leader d’oltre canale?
Il I libro dell’Eneide recita dell’amazzone: « Guerriera ardita, che succinta, e ristretta in fregio d’oro l’adusta mamma, ardente e furiosa tra mille e mille, ancor che donna e vergine, di qual sia cavalier non teme intoppo. ».
Virgilio non narra di contestazioni o accuse mosse ai re del tempo. Anni fa Cossiga andava di piccone, qualcuno dice che dimenticasse di assumere i farmaci consueti. Oggi il nostro va di mazza, che non sia per cause opposte? Presidente un consiglio, un’aspirinetta al giorno da abbastanza liquidità
sanguigna. Non dia modo agli avversari di scatenarsi in invidiosi attacchi.
Popof 19giugno2009
Anni fa un racconto di fantascienza, prevedeva il rientro sulla terra di un gruppo di astronauti che erano stati ai confini della galassia in stato di ibernazione, un viaggio lungo 800 anni. Oltre ad amici e parenti che non ci sono più, molto altro nell’assetto geopolitico e sociale è cambiato. Tra le tante non c’è più l’attività del gioco del pallone.
Il gruppo di astronauti risveglia nella nuova dimensione l’interesse per il calcio spettacolo con tutto ciò che ne consegue: costruzione di stadi, organizzazione di squadre di calciatori, sponsor ecc., creando un grosso giro d’affari.
In questi giorni, tra le tante notizie, ce ne arrivano anche di quelle che ci lasciano addosso tante domande.
Mi riferisco alle cifre esorbitanti per l’ingaggio dei giocatori di pallone e quasi quasi ci sentiamo tutti più ricchi.
A scuola ci insegnavano che il prezzo di un bene si determina anche in base alla legge (intesa come metodo di calcolo) della domanda e dell’offerta. In parole povere se ho 100 camicie da vendere e 150 acquirenti il prezzo aumenta,se ho sempre 100 camicie da vendere e 50 disposti a comprare il prezzodiminuisce.
Facendo variare il prezzo si ricava un grafico con due curve. Il punto in cui le due curve s’intersecano stabilisce il prezzo finale.
Ora mi chiedo: se 2.000.000 di persone vogliono fare il calciatore e solo 500 possono farlo, il prezzo d’ingaggio dovrebbe aumentare o diminuire?
Indubbiamente dovrebbe diminuire. Qui sta l’anomalia: l’operatore ecologico non vorrebbe farlo nessuno, ci sono tanti posti disponibili e il prezzo del lavoro nziché salire scende. Viceversa i posti di calciatore sono molti di meno,tutti vorrebbero farlo e il prezzo del compenso per l’attività calcistica aumenta.Si, ci vuole talento e tutto il resto. Ma può solo il talento consentire di far girare fior di milioni di Euro? Il pozzo di S.Patrizio deve essere molto profondo.
Possono bastare gli incassi di abbonamenti e biglietti per compensare calciatori, allenatori, medici, massaggiatori, fisioterapisti, hostess e stuart? (non me ne voglia qualche professione non citata).
E allora cos’è che da la spinta al rialzo? Da dove vengono tutti quei soldi necessari a fare mercato?
Dagli sponsor.
E gli sponsor dove li pigliano i soldi?
Dai milioni di telespettatori che, trasformati in audience, determinano il costo degli spot pubblicitari. Più audiens vuol dire maggiori incassi. Questa è la novità dell’ultimo quarto di secolo: trasformare una situazione improduttiva, come quella del telespettatore, in qualcosa di produttivo chiamato indice di ascolto.
A questo punto il gioco è fatto: trasmetto una partita, che ha un largo seguito, lo sponsor mi paga per la pubblicità che il telespettatore ripaga con l’incremento di prezzo del prodotto pubblicizzato (auto, gomme, merendine, formaggini, computer, scommesse e via di di questo passo, con un’unica esclusione, la biada).
Insomma il prezzo lo determiniamo noi con i nostri comportamenti, stravolgendo i fondamenti delle vecchie regole economiche.
Ma perché il calcio ha così successo? Ha regole semplici, in cui ognuno ci vede una cosa diversa dall’altro, poi gli uomini e le donne che gli girano intorno alimentano il fuoco fatuo del dissenso.
Qualcuno ha detto: una partita dura 90 minuti, la discussione una settimana.
Su tutto questo si alimenta un grosso giro di affari: quante trasmissioni di sport? Quanti giornali sportivi?
E’ qualcosa che coinvolge tutti, dall’operaio all’amministratore delegato. Una lama che taglia orizzontalmente la società.
Pare che il 90% dei genitori sogni un figlio campione di calcio. Una percentuale simile dei ragazzi sogna di diventare campione.
Ho visto genitori gridare nei confronti dei propri figli gli improperi più abietti per un goal mancato o per non aver messo ko un bambino avversario.
Qualcuno ci ha visto in tutto questo anche stili di vita, come la garanzia dello sviluppo della capacità competitiva, fino a diventare uno schema per affrontare il quotidiano prestando termini in qualsiasi situazione sia di lavoro che di svago: fare squadra, gioco di squadra, uniti come una squadra….e alla fine quello che segna, dopo che gli altri han sudato, guadagna di più.
Specchio specchio delle mie brame chi è il più cieco del reame?
Popof 18giugno2009
Se c’è qualcosa, in campo artistico culturale, che mi affascina, mi emoziona, mi “prende” nel mio più recondito interiore, questo è il Rinascimento. Se mi chiedete perché, non so darvi una spiegazione “logica”; anche se io, attraverso le mie emozioni, riesco a percepirne le cause, oltre agli effetti. Orbene, il Rinascimento possiamo definirlo come la civiltà culturale ed artistica fiorita in Italia e da lì estesasi in altre regioni d’Europa, dalla metà del secolo XIV fino a tutto il secolo XVI, configuratasi essenzialmente come riacquisizione, nei diversi campi dell’arte e della vita intellettuale, dei modelli dell’antichità classica, alterati ed offuscati nel Medioevo e come ritorno alla natura ed all’uomo quali principali “misure” del sapere. Determinante fu l’apporto dato dagli umanisti (F.Petrarca, L.Bruni, L.Valla, ecc.), con il loro interessante recupero di testi della latinità prima, quindi della grecità, anche se la sintesi dell’estetica rinascimentale si espresse in modo esemplare soprattutto nelle arti visive e nell’architettura (con l’elaborazione di testi e trattati concernenti “la città ideale” ed i suoi tentativi di realizzazione in centri di nuova fondazione come Pienza o Palmanova). Una forte tensione per il perseguimento di un ideale di armonizzazione degli elementi naturali alimentò anche lo studio dell’alchimia, della chimica, della matematica, commiste a credenze pagane e magiche. Il centro cittadino più importante della civiltà rinascimentale italiana fu Firenze: i nuovi protagonisti della vita culturale (scrittori, pittori, scultori, architetti) uscivano dalla ricca borghesia mercantile cittadina: non più, dunque, chierici in cerca di una sistemazione, ma laici esponenti della classe dirigente. Il periodo di massima fioritura rinascimentale coincise, peraltro, in modo stridente, con una grave decadenza politica e militare degli Stati italiani, percepita chiaramente da autori come N.Machiavelli e F. Guicciardini.
Quando noi parliamo di Rinascimento per designare una certa fase, molto ben determinata, della storia europea, intendiamo riferirci ad un movimento d’idee, ad un “periodo” artistico letterario e culturale, che è anzitutto e soprattutto una realtà dello spirito. Quello per cui il Rinascimento è tale, non è l’agire pratico, spicciolo di questo o quel personaggio, non è il vivere allegro di un borghese fiorentino, o il lusso di una gentildonna mantovana, o la sfrenata ambizione di un condottiero o la sete d’amore di un qualsiasi uomo della Corte di Napoli: è invece il modo in cui i propositi e le azioni degli uomini vengono sistemati concettualmente e da puro agire pratico, istintivo, diventano un credo spirituale, un programma di vita. E qui appunto che si rileva l’essenza del Rinascimento: il suo cosiddetto “realismo ed individualismo” conduce, come nell’arte e nelle lettere, così nella scienza, nella teoria politica e nella storiografia, all’affermazione del valore autonomo, indipendente da premesse e fini metafisici, e dell’opera d’arte e della politica e della scienza e della storia, con una linea di sviluppo continua che dall’Alberti prosegue sul Machiavelli, nell’Ariosto e sbocca nel Galilei; conduce cioè allo sbriciolamento della concezione del mondo tipica del Medioevo, in cui nessuna forma di attività umana poteva essere considerata a sé, fuori del nesso con l’insieme. All’allegoria si risponde col molto noto precetto dell’arte per l’arte; e sono due mondi completamente diversi.
L’arte per l’arte, la politica per la politica, la scienza per la scienza: ecco il motto in cui potrebbero essere racchiusi i risultati del pensiero italiano di tre secoli.
Bartolo da Sassoferrato aveva applicato agli Stati la formula del superiorem non recognoscentes, per indicare la piena autonomia degli stati stessi: questa formula potrebbe benissimo essere applicata a tutte le forme di attività culturale del Rinascimento. Ond’è che realismo ed individualismo ed amor della gloria ed imitazione della cultura antica, nella vita medioevale accettati si, ma come particolari che servivano ad un più alto scopo, ora si pongono, liberamente, come fine a se stessi. E’ lo spirito nuovo del Rinascimento. Quel Rinascimento che ha fatto tremare i polsi ad ogni spirito sensibile, ad ogni amante del “bello”. Quel Rinascimento che mi ha fatto piangere lacrime di commozione, quando, all’età di diciannove anni, nella Chiesa di San Pietro, in Roma, mi sono trovato per la prima volta al cospetto della Pietà del Michelangelo, collocata sul pavimento, all’ingresso della Basilica. La visione di quel capolavoro, nitida in tutti i particolari, non mi ha più lasciato per il resto della vita, così come non mi hanno più lasciato le lacrime di commozione di fronte ai grandi capolavori dell’arte e della cultura creati da sommi geni quali Leonardo. Michelangelo, Mantegna, Masaccio, Brunelleschi, Donatello, Piero della Francesca e tanti, tanti, tanti altri Grandi fino a stordirsi e perdersi nell’empireo dell’arte.
Scusate amici di Eldy. E’ uno dei rari casi in cui parlo delle mie emozioni. Ma non è detto che queste, per il valore universale delle loro cause, non possano essere oggetto di riflessione per tutti.
Franco3.br 18giugno2009
Europa –Vento di destra?
Seconda puntata
Abbiamo indicato nell’astensione dal voto il dato più significativo delle scorse elezioni europee.
Essa, nei 27 paesi membri, ha raggiunto il 56,7 per cento dei circa 380 milioni di aventi diritto. E abbiamo individuato in questo disinteresse dei cittadini europei, unito all’aumento dei voti dei movimenti euroscettici, il dato più allarmante in merito al grado di popolarità dell’Europa. E poi, abbiamo rilevato che mai come ora, sui risultati elettorali hanno giocato i fattori interni dei vari paesi, ed in particolare il peso della crisi.
Ma il vento di destra, nel complesso, si è fatto sentire? Direi, tutto sommato, di sì. Il crollo dei partiti di sinistra in Francia, Gran Bretagna, Germania e Spagna c’è stato, sì da potersi tranquillamente confermare la crisi che tali partiti hanno fatto riscontrare da qualche anno. Dal crollo del comunismo precisamente. Che ha fatto toccare con mano, ad un certo punto, l’ineluttabilità del trionfo del capitalismo in tutto il mondo
Perché non ha resistito la sinistra, perché non ha attaccato a sua volta il capitalismo con un’altra ipotesi che non fosse il comunismo? In fondo la socialdemocrazia aveva combattuto con successo la sua battaglia, soprattutto nell’Europa del Nord, e aveva fatto raggiungere ai lavoratori insperati successi in diversi campi: dalla previdenza, alla sanità, alle condizioni di lavoro, ecc.
La caduta del comunismo ed il trionfo del capitalismo avevano inciso drammaticamente anche sulla socialdemocrazia ridimensionandola e riducendola. Ma oggi il quadro comincia a cambiare drammaticamente. Dalla vittoria del capitalismo intesa come ricetta vincente basata sul liberismo e sulla centralità dell’impresa, a favore della quale occorreva togliere lacci e lacciuoli, con la recente crisi sì è passati ad una centralità dell’impresa, sì, ma accompagnata alla riscoperta di un ruolo dello Stato inteso a proteggere il capitalismo dalla stessa crisi. La miscela diventa così esplosiva: un misto di capitalismo e di statalismo. Questa è la vera novità. Non la virata a destra delle economie e delle politiche europee, che peraltro non sono adottate allo stesso modo da tutti gli stati aderenti.
Si rilevava nell’articolo precedente che l’Europa sembra ” un’allegra brigata di giocatori senza allenatore e senza società, senza schemi e senza regole. Un’accozzaglia di 27 numeri uno. Ognuno per sé e nessuno per tutti. Un Parlamento senza poteri, una Commissione senza seguito, una Costituzione senza adepti, una politica senza politica, un’economia … ?”
I nuovi organi dell’Europa non sono ancora nati. Si rilevava, peraltro, che “in una situazione di crisi generalizzata, farebbe ridere la permanenza del criterio della stabilità dei conti e del debito pubblico”. Ma se il criterio principale, nelle economie dei vari stati europei fosse quello della difesa “sic et simpliciter” dell’occupazione? O la difesa dalle immigrazioni indiscriminate? Certo occorrerà battere strade più impegnative di quelle del passato. Si è detto dell’immigrazione. Ma aggiungiamo, come abbiamo rilevato, la politica estera comune, la difesa comune, i piani di sviluppo dell’economia, soprattutto nei paesi di nuova adesione, la sicurezza.
E qui nasce drammaticamente il problema di una sinistra assente il cui ruolo sarebbe necessario anche come termine di confronto e di competizione per la destra. Di fronte ai problemi epocali dell’inquinamento al livello mondiale, e della permanenza nel mondo di popoli alla fame, l’assenza di una posizione di autentica sinistra, capace di slanci generosi verso i popoli in difficoltà e verso il lavoratori di tutto il mondo rappresenta una vera iattura. Poiché anche in politica ed economia “gli spazi si riempiono” in mancanza di chi sarebbe destinato ad occuparli, sta a vedere che toccherà alla destra fare anche una politica di sinistra.
E qui si tocca con mano l’errore di chi in Italia ha voluto ad ogni costo la formazione di un partito di centro, non di centro sinistra, formato da post comunisti e post democristiani, che ha distrutto una sinistra desiderosa peraltro di cambiare per assumere nuovi compiti e nuovi impegni.
Che dite, vogliamo continuare il dibattito?
lorenzo.rm 17giugno2009
Salve a tutti, sentendo in questi giorni i dibattiti elettorali, e vedendo quello che sta succedendo a Teheran, voglio esprimere un a mia riflessione sulle recenti votazioni in Iran. La comunità internazionale ha espresso la propria preoccupazione e allarme per le notizie che giungono in queste ore da Teheran, tanto più è sempre più di fronte a quella straordinaria partecipazione del popolo al voto ha voluto indicare una forte domanda di apertura verso altri paesi per un rinnovamento politico. Mossovi (altro candidato in lista) chiede nuove elezioni dopo 48 ore della vittoria di Ahmadinejad, due milioni di cittadini hanno sfilato a Teheran, sfidando quel regime di oppressione che esiste per chi non la pensa come dice l’attuale presidente, già si sono sentiti colpi di arma da fuoco e purtroppo anche con vittime, le tensioni non si allentano, la polizia del regime sta tentando in tutti i modo di sedare ogni tipo di protesta. La repressione è scandita non solo con armi ma a suon di botte e altre atrocità, infine il carcere, (e li è veramente carcere e lo si fa tutto) I dati dicono 62,3 % per Ahmadinejad, ed il 33% per il suo rivale Mousavi, ma continua ad aleggiare il grave sospetto che vi siano stati dei brogli elettorali, l’ostruzionismo che le autorità Iraniane, che fin dagli esordi della campagna elettorale hanno perpretato nei conflitti dei comitati riformisti suggerisce questa probabilità. Hossein Mousavi ha inoltrato una richiesta formale di annullamento o quantomeno di una verifica dei voti al “consiglio dei guardiani della rivoluzione”che è il massimo organo che svolge le funzioni di garanzia, e mi chiedo quale? Le autorità Iraniane, già da parecchi giorni avevano tentato di compromettere le informazioni, le comunicazioni, fra i riformisti, blindando anche gli sms, internet, tv locali, e satellitari come se presagissero quello che sta avvenendo e succedendo . Per tutto questo rimane un forte rammarico di molti penso per una svolta che avrebbe potuto realizzarsi un cambiamento di politica Arabo- Mussulmani. Mi domando con tutta questa repressione con il sangue che sta avvenendo, per rivendicare un proprio diritto, una propria volontà del popolo, dove sono tutti i pacifisti che fino a poco tempo fa facevano cortei inneggiando alla libertà!, alla pace, al diritto di scendere in piazza per manifestare, dove sono ora i girotondi, girotondini, ecc. e quant’altro? Non è forse ora di far capire a questo Ahmadinejad che è ora di cambiare e di pensare diversamente come vogliono i suoi concittadini?
Il 10 dicembre 2008 la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, adottata dalle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, ha compiuto sessanta anni.
Non so se tutti noi conosciamo questo importante processo della storia dell’Umanità. In ogni caso, vale la pena rivisitarla insieme per soffermarci e commentarla.
La storia dei diritti non ha un punto finale, un risultato definitivo; è un processo a tappe, mai definitivamente garantite, per comprendere, riconoscere che cosa significa umanità e dignità umana.
La ricostruzione storica si sofferma su idee e norme giuridiche che si sono affermate nel tempo e pone una forte enfasi su due momenti cruciali in cui i diritti umani si sono affacciati alla storia: la metà circa del Settecento e la metà del Novecento. Sono le epoche in cui le diverse Dichiarazioni dei diritti sono diventate un momento centrale della Storia.
La dichiarazione del 1948 è stato il primo documento a sancire universalmente i diritti che spettano all’essere umano: alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della persona. E’ stato, anche, un punto d’arrivo di un dibattito filosofico che ha visto impegnati filosofi quali John Locke, J.Jacques Russeau, Immanuele Kant, fino a Jacques Maritain che partecipò di persona alla stesura della Dichiarazione.
E’ la base di molte conquiste civili della seconda metà del XX secolo ed ha costituito l’orizzonte della Carta dei Diritti fondamentali dell’ Unione Europea confluita, poi, nel 2004, nella Costituzione Europea. I trenta articoli di cui si compone sanciscono questi diritti: gli articoli 3-11 i diritti individuali (art. 3 “”ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona””), gli articoli 22-27 i diritti economici, sociali, culturali (art. 22 “”ogni individuo, in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza sociale””; art. 26 “”ogni individuo ha diritto all’istruzione, indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana ed al rafforzamento del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali””).
La Dichiarazione dei Diritti Umani è un codice etico d’importanza storica fondamentale; si fonda sul principio della dignità della persona, a prescindere dalla razza e dal censo, e sul principio di uguaglianza ontologica che afferma che ogni essere umano ha eguale dignità.
La radice ed il fondamento dei diritti dell’Uomo sono, infatti, da ricercare nella dignità, che appartiene ad ogni essere umano, al di là della stessa volontà degli uomini, delle realtà nazionali, dei pubblici poteri, che hanno bensì il compito di riconoscerli, rispettarli, tutelarli e promuoverli.
I diritti umani sono universali. Essi appartengono all’Uomo in quanto persona, ad ogni persona ed a tutte le persone, uomini e donne, ricchi e poveri, sani e ammalati. Ogni uomo, così come ogni popolo, deve godere dell’uguaglianza fondamentale; questa uguaglianza, in termini laici, è il fondamento del diritto di tutti alla partecipazione al processo di pieno sviluppo e, quindi, della pace.
La Dichiarazione ha costituito un ottimo punto di partenza; ma il cammino si è poi rivelato irto di ostacoli quando le legislazioni nazionali sono state sollecitate a tradurre in norme concrete le idee della Dichiarazione.
In un mondo più complesso e più connesso (la connessione è un parametro funzionale della globalizzazione in quanto coinvolge uomini, affari e norme), i diritti umani stentano ad adeguarsi ai corsi della globalizzazione ed a trovare risposte valide alle nuove problematiche del XXI secolo. Ancora oggi, in ogni angolo del pianeta, si assiste impotenti a continue infrazioni della Dichiarazione (diritti strappati alle popolazioni più povere e di basso rango sociale, ma anche violazione dei diritti nelle nazioni più potenti).
Due avvenimenti storici odierni mi hanno spinto a “rileggere” la Dichiarazione ed a soffermarmi in riflessione: le esternazioni del Colonnello Gheddafi, in visita in Italia, e le elezioni in corso in Iran.
Non intendo far commenti su tali avvenimenti per non creare malintesi, ma vi invito tutti a pensarci ed a riflettere. Se sarà il caso, potremo riparlarne.
La ricorrenza del 60° anniversario della Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo è stato un forte richiamo a porre questi diritti al centro dei programmi politici e delle strategie di sviluppo della cooperazione internazionale. Di qui il rinnovato impegno da parte di tutti: non solo delle Istituzioni, ma anche delle Associazioni e dei singoli individui.
Noi di Eldy, amici, potremmo prenderci impegni in tal senso perché, se fatti in con testualità, possiamo annullare il brutto effetto dell’individualismo,
Qualche giorno fa, l’amico LORENZO R.M. con un suo commento ad un mio lavoretto annotava che “Eldy si avvia a possedere, con un riferimento generale, una serie di materiali interessanti ed importanti che costituiranno man mano un patrimonio assai utile per tutti gli amici”. Commento intelligente e centrato. Questo significa che tutti gli amici Eldyani, che giornalmente si danno da fare per esprimere opinioni, riflessioni, su argomenti di varia natura, sempre validi, dovrebbero volere e potere dare qualcosa di più a favore di tutti gli altri. Esaltiamo, integriamo, se necessario, ciò che di valido ci viene proposto, a beneficio di tutta una schiera che, vedo, sta crescendo di giorno in giorno. Il seme interrato da Lorenzo, io per primo proverò ad innaffiarlo per farlo diventare pianta e farla crescere sana e rigogliosa.
Per quanto ho scritto prima, se tutti siamo consapevoli del valore costitutivo della “persona”, impegniamoci a difenderne i diritti con la consapevolezza che la pace a livello internazionale si costruisce sul concreto riconoscimento dei diritti di ciascun individuo, indipendentemente dalla sua appartenenza etnica o dalla sua fede. Dobbiamo, vogliamo contribuire, interpretando il senso della storia, a realizzare la pace e la comprensione tra i Popoli.
franco3.br 16giugno2009
Ricevo da domenico, che è calabrese, di Reggio, una bella documentazione su: “I Bronzi di Riace”
Il Museo Nazionale di Reggio Calabria, uno dei più importanti musei archeologici d’Italia, offre ai visitatori splendide testimonianze della civiltà della Magna Grecia, emerse in scavi e ricerche effettuati nell’intera Calabria, in più di cento anni.
Fiore all’occhiello del Museo, sono sicuramente i Bronzi di Riace, forse la più sensazionale scoperta dell’archeologia sottomarina del secolo scorso.
La scoperta
Il 16 agosto 1972 Stefano Mariottini (un giovane sub, dilettante romano) si immerse nel Mar Ionio a 300 metri dalle coste di Riace e ritrovò casualmente, ad 8 metri di profondità, le statue dei due guerrieri, che diventeranno famose in tutto il mondo, come i Bronzi di Riace. In particolare, l’attenzione del subacqueo fu attratta dal braccio sinistro di quella che poi sarebbe stata denominata statua A, unica parte delle due statue che emergeva dalla sabbia sul fondo del mare. Per sollevare e recuperare i due capolavori, i Carabinieri del nucleo sommozzatori utilizzarono un pallone gonfiato con l’aria delle bombole. Così il 21 agosto fu recuperata la statua B, mentre il giorno successivo toccò alla statua A (che ricadde sul fondo, una volta, prima d’essere portata al sicuro sulla spiaggia).
I due bronzi sono, quasi certamente, opere originali dell’arte greca del V secolo a.C. e, dal momento del ritrovamento, hanno stimolato gli studiosi alla ricerca dell’identità dei personaggi e degli autori. Ancora oggi non è stata raggiunta l’unanimità per quanto riguarda la datazione, la provenienza e tanto meno gli artefici delle due sculture.
I Bronzi di Riace presentano una notevole elasticità muscolare, essendo raffigurati nella posizione definita a chiasmo. In particolare il bronzo A appare più nervoso e vitale, mentre il bronzo B sembra più calmo e rilassato. Le statue trasmettono una notevole sensazione di potenza, dovuta soprattutto allo scatto delle braccia che si distanziano con vigore dal corpo. Il braccio piegato sicuramente sorreggeva uno scudo, l’altra mano certamente impugnava un’arma. Il bronzo B ha la testa modellata in modo strano, appare piccola perché consentiva la collocazione di un elmo in stile corinzio. Il braccio destro e l’avambraccio sinistro della statua B hanno subìto un’altra fusione, probabilmente per un intervento di restauro antico.
Lo studio dei materiali e della tecnica di fusione rivela comunque una certa differenza tra le due statue che, secondo alcuni, potrebbero essere attribuite ad artisti differenti o realizzate in epoche distinte, oppure da uno stesso artista in luoghi differenti. Nel 1975 le statue furono portate a Firenze, nel Centro di Restauro della Sopraintendenza Archeologica della Toscana, per il restauro complessivo. Nel 1979, terminato il restauro e prima di essere riportati a Reggio Calabria, i Bronzi furono esposti al Museo Archeologia di Firenze e, per due settimane, al Palazzo del Quirinale, a Roma. Dal 1981 i Bronzi sono visibili in un’ apposita sala, allestita per loro, nel Museo Nazionale di Reggio Calabria.
Un po’ di storia.
Due atleti ? Due guerrieri ? Oppure due barbuti eroi, figli di Zeus o di Apollo? Le più varie ipotesi su quali fossero i personaggi reali ai quali erano ispirati i bronzi di Riace. Ora l’enigma ha trovato una risposta convincente, grazie agli studi di paolo Moreno, docente di Archeologia e Storia dell’arte greca e romana, all’università di Firenze. Ecco cosa ha scoperto Moreno: le statue furono fabbricate col metodo della fusione diretta, poco usata perché non consentiva errori quando si versava il bronzo fuso, infatti, il modello originale era perduto per sempre. La provenienza geografica e la tecnica usata hanno convinto Moreno che l’autore del “giovane” fosse Agelada, uno scultore di Argo che, a metà del V secolo a.c., lavorava nel santuario greco di Delfi, nel Peloponneso. Infatti, Tideo assomiglia moltissimo alle decorazioni del tempio di Zeus a Olimpia. Quanto al vecchio, i risultati delle analisi hanno confermato l’ipotesi dell’archeologo greco Geòrghios Dontàs. A scoprirlo fu Alcamene, nato sull’isola di Lemno, che pare che avesse ricevuto la cittadinanza ateniese per i suoi meriti d’artista. Ai risultati della ricerca, Paolo Moreno ha unito lo studio di documenti storici, come quelli lasciati dal greco Pausania, che aveva redatto tra il 160 e il 177 d.c., una vera e propria guida turistica dei luoghi e monumenti della Grecia. In particolare, Pausania scrisse di aver visto nella piazza principale di Argo un monumento ai Sette di Tebe, gli eroi che fallirono nell’impresa di conquistare la città, e ai loro figli (gli Epigoni), che li riscattarono ripetendo l’impresa con successo. Il bronzo A, detto anche il “giovane”, potrebbe rappresentare Tideo, un feroce eroe proveniente dall’ Etolia, figlio del dio Ares (o del re Eneo) e protetto da Atena. Il bronzo B, detto “il vecchio”, raffigurerebbe, invece, Anfiarao, un profeta guerriero. Entrambi parteciparono alla mitica spedizione della città di Argo contro Tebe, e Anfiarao aveva persino profetizzato la propria morte, sotto le mura di Tebe, e la disastrosa conclusione dell’avventura. Oltre ad aver identificato i due personaggi, Moreno ha individuato gli artefici delle statue e trovato l’originale collocazione dei due pezzi. Ancora un ultimo enigma. Come hanno fatto i bronzi superstiti ad arrivare nel mare della Calabria? All’inizio si ipotizzò che i due bronzi fossero stati gettati in mare dall’equipaggio di una nave in difficoltà, per il mare grosso, dice Moreno (ma nelle campagne circostante è stato ritrovato un pezzo di chiglia, appartenuta a una nave romana, d’età imperiale), si notò, inoltre, che le statue furono trovate vicine ed affiancate, cosa impossibile, anche se fossero state gettate in mare contemporaneamente. Il ritrovamento sembra tipico di una nave naufragata, distrutta nei secoli , a causa delle forte corrente e dell’acqua marina. Una nave quindi che trasportava i bronzi di Argo, soltanto due ? Non è detto, conclude Moreno! Forse la nave trasportava l’intero gruppo, la cui sorte è ancora sconosciuta. La storia non finisce qui, essa si infittisce di episodi oscuri, forse a tutt’oggi non si conosce, con esattezza, la fine dei reperti di cui il signor Mariottini aveva parlato, all’atto della scoperta. Egli disse che le statue allora erano tre, con relativi elmi, scudo e lancia, e non si sa la fine che abbiano fatto questi reperti. Tutta la vicenda si avvolge in un mistero ancora più “affascinante”, com’è affascinante la storia e la collocazione dei bronzi, da lasciare libertà di espressione ai tantissimi storici che si sono pronunciati in merito, abbandonando la loro sapiente verità. Il ritrovamento dei Bronzi di Riace e la loro storia di estrema bellezza ci affascinano e continueranno ad arricchire i posteri.
Mi auguro di non avervi annoiato ma, visto che sono reggino, toccava a me parlarne. Reggio Calabria è ricca di storia e reperti antichi, meriterebbe proprio di essere visitata.
Dovreste farvi lambire anche dal nostro bel mare, limpido e cristallino, che ha partorito i Bronzi, dopo averli custoditi per secoli, per farli ammirare in tutta la loro bellezza.
Domenico.rc 15.06.2009
Sino a qualche settimana fa lo spettro della deflazione, cioè abbassamento indiscriminato dei prezzi, si aggirava per il mondo economico: nemico indiscusso dello sviluppo e terrore delle banche.
Oggi, mentre qualcuno già caldeggia l’idea che il peggio è passato, tra le righe si leggono due segnali.
Uno viene dal Governatore della Banca D’Itatlia Draghi che, pur ammettendo che il peggio sembra sia passato, avverte che c’è un eccesso di liquidità e quindi un pericolo inflazionistico.
Stesso pericolo avverte anche qualche commentatore economico, individuando la provenienza dell’effetto negli USA.
Ecco questi elementi mi han fatto riflettere raso terra, per aiutarmi a non restare sbalordito tra qualche mese.
Qual è il ragionamento alla base di questa conclusione?
La crisi è iniziata con il default di alcune banche, più all’estero, in USA in particolare, che non da noi dove è stata sufficiente (?) la dotazione di qualche stampella qua e la. Poi si è trasferita all’economia reale, con un calo degli ordini e conseguente diminuzione dell’occupazione.
In questo momento viviamo un incremento della disoccupazione ed un’impennata dei mezzi messi a disposizione per il sostegno del reddito (cassa integrazione ordinaria, straordinaria e in deroga; mobilità; prepensionamenti).
Ad un certo punto, visto che il PIL (Prodotto Interno Lordo) crolla, crolleranno anche le entrate tributarie e contributive.
Quale sarà l’esito finale? L’accettazione di un po’ di inflazione.
Come? Ad esempio con l’immobilismo nei confronti delle speculazioni che gonfiano i prezzi, ad esempio la speculazione attuale sul petrolio.
Mi chiedo: come mai un anno fa il barile di petrolio costava 150 dollari, poi è sceso a 35 e ora torna a 80 (con la prospettiva di chiudere l’anno a 90)?
Quando la domanda aumenta il prezzo sale.
Altra domanda: ma chi acquista petrolio, fa scorta quando il prezzo aumenta o quando diminuisce?
La risposta è ovvia, si compra sempre quando il prezzo diminuisce, a meno che
la nostra classe imprenditoriale non sia capace di fare il suo mestiere.
Viste queste considerazioni mi sembra ovvio che quello che stiamo consumando oggi è il petrolio acquistato quando i prezzi erano bassi.
Ecco cos’è una speculazione: vendere benzina a 1,35 come se il petrolio acquistato si fosse pagato a 80 $ e non a 45. Ed ecco che l’immobilismo dei governi fa il resto (non di tutti, lo scorso anno quando il gasolio qui era a 1,55 in Francia l’ho pagato al massimo 1,25 e oggi in Spagna costa 0,87 contro i nostri 1,12). Come?
Consentendo un’artificiale aumento del prezzo della benzina, e del gasolio, si innesca un aumento generalizzato dei prezzi, questo permette di aumentare le entrate tributarie pur in presenza di una diminuzione del PIL, vale a dire recuperare parte di quelle risorse utilizzate per gli ammortizzatori sociali.
Inoltre una modesta inflazione consente di far diminuire il valore di stipendi e pensioni attraverso un minore potere d’acquisto.
A questo si oppone la BCE (Banca Comune Europea) che ritiene prioritario dover tenere l’inflazione sotto controllo. Ma cosa propone la BCE? Una stretta finanziaria, cioè minore spesa pubblica che, in soldoni, significa minori prestazioni ospedaliere e specialistiche, minori risorse per la scuola pubblica, i trasporti, le comunicazioni e tutti quei capitoli di spesa che possono essere tagliati.
Magari avremo un po di uno e un po dell’altro al fine di mantenere il materialismo della felicità attraverso i mezzi economici distribuiti a macchia di leopardo senza un progetto, se non il vivere alla giornata.
Coraggio, abbiamo appena votato il rinnovo del Consiglio Europeo: con tutta la
gente nuova che c’è prenderanno decisioni vecchie? Auguri.
Dopo alcuni pittori del XIX secolo, famosi anche per la loro vita movimentata, ecco uno scultore toscano del 1500, gloria italiana anche alla corte di Francesco I di Francia.
Benvenuto Cellini, orafo, scultore, incisore e scrittore, nacque a Firenze nel 1500.
La sua vita fu profondamente condizionata da un temperamento ombroso e violento (fu più volte omicida), egocentrico, vanitoso, ma nello stesso tempo contrassegnata dall’amore per il padre e per i fratelli. Ebbe un’esistenza molto tormentata come, peraltro, è stata quella di molti artisti geniali e i suoi rapporti interpersonali furono costellati da momenti di pura follia.
Egli iniziò la sua educazione e la sua attività artistica come orafo prima a Firenze, poi a Siena, Bologna e Pisa.
Si trasferì, in seguito, a Roma, dove lavorò, esclusivamente come orafo, anche per i papi Clemente VII e Paolo III.
Successivamente, si trasferì a Parigi, presso Francesco I, dove si esercitò nei vari rami dell’oreficeria: suppellettili, gioielli, monete, medaglie, sigilli, armi.
Durante il periodo francese egli unì a questi lavori, che culminarono nella celebre Saliera di Francesco I, le prime prove come scultore, creando la lunetta col rilievo in bronzo della Ninfa di Fontainebleu.
Infine, ritornato a Firenze, Cellini accentuò il suo impegno nel campo della scultura e della fusione del bronzo.
Tra il 1545 e il 1554 gli fu commissionata da Cosimo I, Duca di Firenze, la statua di Perseo – che oggi ammiriamo sotto la Loggia dei Lanzi – in piedi sul corpo di Medusa appena decapitata.
Nello stesso periodo eseguì anche la scultura del Ganimede, collocata nel Museo Nazionale del Bargello a Firenze.
Nella Saliera di Francesco I non si sa se ammirare maggiormente la preziosità del lavoro o la duttile eleganza delle figure. Con la stessa maestrìa e grazia è modellata la figura della Leda col cigno, in un fermaglio per cappello, in rame dorato, che si trova nel Museo Nazionale di Firenze.
La profonda serietà professionale di Cellini e la sua concezione artistica erano in linea con la grande tradizione di Firenze, ma in netto contrasto con l’ambiente fiorentino di quegli anni: per questo fu incompreso e, tenuto in disparte dal granduca, che prediligeva il Vasari e l’Ammannati,
Cellini trascorse gli ultimi anni della sua vita fra grandi speranze e profonde delusioni. Morì nel 1571.
Giovanna3.rm 12.06.2009
Ho letto recentemente un bell’articolo di Ofonio, e prima ancora uno di Nadia che,
dalle pagine musicali di Eldy, hanno risvegliato dei ricordi che credevo assopiti dal
tempo, e una riflessione dettata dalla paura, quella di finire tra qualche anno in un
ospizio ad ascoltare il liscio.
Senza contare che come mi muovo al ritmo di progressive rock, posso essere
scambiato per un parkinsoniano e portato in qualche ospedale per le cure del caso.
Ma cos’è questo tipo di musica? Quanti di voi che avete attraversato mio pari,
quest’arco temporale lo conosce?
Ormai siete abbastanza bravi, fate così andate su You Tube e digitate uno dei nomi
che cito nell’articolo, magari molte musiche le conoscevate (sono state spesso usate
nelle pubblicità), magari vi piacevano ma non sapevate da chi erano eseguite. Badate
bene, nelle RSA (come si chiamano oggi gli ospizi) viene erogata solo pessima
musica, e se non si è stati musicisti di professione non c’è posto alla Casa di Cura
“Giuseppe Verdi”.
Poi aggiungete il fatto che molta della musica di cui parlo ci è arrivata dall’estero
anglofono e che la medicina porta essenzialmente nomi con radici greche o latine
Tengo subito a precisare che non ritengo quella del progressive un’invasione
anglofona, ma un naturale scambio culturale.
La segnalazione dei gruppi nostrani che in tale ambito seppero dimostrare creatività e
padronanza dell’arte di fare musica è corretta (vi invito a leggere il bell’articolo di
Ofonio), ma fu soprattutto il pubblico giovanile del tempo a sancire alcuni importanti
successi. Resta memorabile quanto avvenne con i Van Der Graff Generator, che
ebbero più seguito da noi che in Inghilterra (almeno all’inizio).
Se oggi si ascolta un qualsiasi disco di quelli citati da Ofonio e si fa un confronto con
quello che erano i brani più ascoltati nelle varie Hit parade, può sembrare che la
musica italiana d’improvviso avesse fatto un salto in avanti (o vivesse un momento di
schizofrenia non ancora esaurito), e dette vita ad un genere musicale che non a torto,
allora si chiamava anche d’avanguardia. Guardando meglio cosa avveniva allora, si
nota che molti gruppi nostrani si formarono in giro per l’Europa.
In qualche caso come “Aria” di A.Sorrenti che fu incisa in Inghilterra, (vi indico l’url
per l’ascolto http://www.youtube.com/watch?v=Wp88rh8gA1U) e credetemi l’ascolto
ne vale la pena, c’è tutta la cultura musicale del lago mediterraneo, a cominciare dallo
svolo.
Peccato che le canzonette successive rovinarono l’artista che doveva comunque tirare
a campare. Ricordo ancora come i Fori Imperiali lo accolsero nel giugno del 1972: un
coro da mal di pancia, ma non aveva accompagnamento solo voce e chitarra.
C’è tra voi qualcuno che quella sera era a Roma? (Una notazione: una volta cliccato
l’url in automatico parte il resto dell’album).
Mi sento di dire che il progressive fu un fenomeno Europeo, forse tra i più apprezzati
in Italia come, detto prima, in quanto, alla ritmica del rock univa la melodia. Mi viene
il flash di Melody Maker, rivista inglese che al tempo, quando avevo i soldi, due o
tre volte ho comprato (ma ci capivo poco e avevo bisogno di traduttori).
Già con l’hard, che in quegli anni correva in parallelo, si erano avuti commistioni con
la musica classica e penso al rock barocco di alcuni brani dei Depp Purple, che
sfiorarono la forma lirica progressive.
Dall’Inghilterra giungevano i suoni dei Jethro Tull, dei Gentle Giant, dei King
Krimson, prima che dei Genesis, Queen, Yes, Van Drer Graff Generator, dalla
Germania i Tangerin Dream, gli Sparifankal, gli Horchestra i Pophol Vu, dalla
Francia Alan Stivell, Jean Luc Pontì. E tanti altri di cui non ricordo più i nomi.
Battezato “progressive rock” è di fatto un connubio tra l’hard (e softh) rock con la
mucica classica e con il jazz (v. “Bouree”, dei Jetrho o “Città sottile” del Banco).
Da notarsi che negli anni ’70 le etichettature erano tante, era difficile porter stabilire
dove iniziava un sound e dove ne iniziasse un’altro, solo di recente, a batticuori
stabili, si è giunti ad un’unica classificazione.
Ma cos’è il rock? E’ un’altalena che dondola instancabile avanti e indietro, si ripete, se
non che, le emozioni che da, sono sempre diverse. Nel contempo è un sound che
fondendosi con altre sonorità ha avuto la capacità di penetrare a diversi livelli.
Il progressive rock, è una delle sue evoluzioni, ed essenzialmente si caratterizzò per il
modo di concepire gli album in maniera unitaria, lunghe suite, con passaggi
armoniosi (overture, adagio, andante, mosso ecc..) tipici della musica classica,
ribattezzati concept album.
Erano gli anni anche di Arancia Meccanica (Beethoven) e 2001 Odissea nello spazio
(Strauss) ricordate?
“Concerto Grosso” dei New Trolls, nei testi in inglese è ispirato a Shakespear: le arti
non viaggiano separate.
Ricordo la P.F.M. che dal vivo eseguiva l’overture de “La gazza ladra”, mentre il
Banco dal vivo inseriva armonie jazz che lo avrebbero portato al Capolinea (rinomato
locale Jazz di Milano) e al Festival di Montraux (prestigioso festival d’oltralpe), e gli
inglesi E.L. & P. producevano Pictures at an exibition (M.P. Musorsgkij). Insomma i
nostri amati idoli rock, capelli e barbe lunghe, venivano fuori dagli “ingessati”
conservatori.
L’uso del flauto traverso, dell’arpa, dell’ottavino, dei timpani, del pianoforte e del
violino, sono stati una novità che ha armonizzato con l’orecchio dei giovani: vale a
dire ritrovare attraverso il rock toni rassicuranti, che in quegli anni di forte
movimento musicosociale, trovava base nella musica classica, dando un senso di
continuità nel distacco.
In Inghilterra, dove la musica classica non era tutta entrata nelle corti, ma era rimasta
appannaggio del popolo, l’operazione è stata più rapida. Da noi che la musica era
entrata prima a Corte e poi nei grandi teatri, il passo è stato più lento ma altrettanto
efficace.
Sono passati più di trentanni da allora. Oggi i nostri idoli di allora sono capi scuola.
Ogni tanto vado per concerti, come un amante di musica classica che frequenta i
conservatori.
La scorsa estate ho scoperto alcune giovani cover band che nulla hanno da invidiare
ai nostri eroi o a chi è venuto subito dopo: The Vipers (c.b. dei Queen), Accademy
Police (c.b. Dei Police), Ottocento (De Andrè/PFM), sono alcuni di quelli ascoltati e
che fedelmente ripropongono buona sana musica che, dagli stadi è entrata nel
santuario della riproposizione fedele nei suoni, che, a distanza di tempo vibrano
ancora nel petto e nella testa.
C’è qualcuno di voi che condivide? Io mi metto un cappello da cow boy per
mimetizzare la calvizie, ma vedo tanti over 50 alle feste.
Io vi propongo due video di questi giovani che gireranno per le varie feste in piazza
anche quet’anno, è un modo per uscire dal solito tran tran ascoltando una musica che,
magari insieme a quello che ha scritto Popof faccia riflettere, per non trovarci sempre
nelle orecchie quello che sceglie il dj di turno pagato con il contributo dei vari
sponsor (leggi pubblicità).
Per divertici e capirci vi do un assaggio degli Ottocento con un brano di DeAndrè
nella versione rimaneggiata dalla PFM. Buon ascolto.
Ottcento: http://www.youtube.com/watch?v=o4hlfIYOJUM
Altro indirizzo utile perchè citato (ma ce ne sono tanti altri, basta aggiungere al nome
del gruppo “originale” la parola “cover” e il gioco è fatto) è:
The Vipers: http://www.youtube.com/watch?v=iLMwv3UpoNs
Popof 12giugno2009
E’ scientificamente provato che la nostra memoria, non esercitandola opportunamente, dopo un periodo di circa cinque anni perde il ricordo di tutto ciò di cui si viene a conoscenza nel corso della vita. Ad esempio, durante gli anni scolastici della Scuola Media e del Ginnasio, io ho studiato presso una scuola di salesiani, con impegno giornaliero dalle ore 08 fino alle ore 18. Era una scuola rigida, però di quelle che “lasciano il segno”. Durante l’ora di lingua straniera (che era il francese), vigeva l’obbligo di parlare in francese per tutto l’orario di permanenza del professore incaricato. Ricordo che avevo imparato a parlare il francese bene, quasi quanto l’italiano. Dopo aver esaurito gli insegnamenti previsti dall’ Ordinamento Scolastico, non mi sono più interessato alla lingua straniera, col risultato che oggi non ricordo granché e non riesco molto a capirlo o, tantomeno, parlarlo.
Chi di noi non ricorda quando per la prima volta abbiamo incontrato, a scuola, le parole “mare nostrum”, in riferimento al Mediterraneo, studiandone la relativa storia? Ebbene, ho riscoperto il “mare nostrum” , a distanza di tanti anni, ricordando poco o nulla di quello che avevo appreso sui libri scolastici.
Leggendo oggi un trafiletto sull’importanza strategica del “mare nostrum agli albori della storia”, per tutte le popolazioni del Mediterraneo, sono stato stimolato dalla curiosità di saperne qualcosa in più. Ho trovato spunti di riflessione culturale,storica, economica, che ho sintetizzato, ritenendo valesse la pena sottoporre all’attenzione delle amiche ed amici di Eldy, dal momento che il Mediterraneo costituisce, per l’Italia, la ragione stessa della sua esistenza.
Sembra quasi irraggiungibile, oggi, la collaborazione e l’integrazione dei popoli del Mediterraneo in un clima sereno di tolleranza civile e religiosa, ciascuno con la propria identità sociale, culturale, economica e politica.
“Noi abitiamo in una piccola parte della Terra. Dal Fasi (costa meridionale del Mar Nero) alle colonne d’Ercole (stretto di Gibilterra), vivendo intorno al mare come formiche e rane attorno ad uno stagno.” Così descriveva Platone (Fedone 109 b) la vita dei popoli mediterranei come se avesse potuto vederli con fotografie riprese da un satellite. In realtà, la visione d’assieme presentata da Platone è ricavata da ricostruzioni della mente; non certo di fantasia, ma basate su conoscenze geografiche già a suo tempo (fine del V secolo a.c.) saldamente acquisite e certamente, in qualche maniera, redatte anche in forma cartografica.
L’ affermazione di Platone ci indica chiaramente come le civiltà mediterranee abbiano avuto inizio nelle popolazioni che vivevano attorno alle rive del mare. Anche se dobbiamo, però, ricordare che lo stesso Platone manifestava una certa diffidenza verso il mare e chi viveva in sua prossimità. Nel dialogo Leggi (IV 705) dice, infatti, testualmente: “Il mare è una realtà piacevole da vivere giorno per giorno, ma alla lunga diventa una vicinanza amara e salata, giacché riempie la città di traffici e di piccoli affari, introducendo nei cittadini i germi dell’incostanza e della falsità.” Nel suo progetto di dove situare uno stato ideale, arriva a fissare perfino una distanza di sicurezza dal mare: quattordici chilometri e settecento metri” (??!!). Non so proprio spiegarvi il perché.
Francesco De Sanctis affermava che: “la cultura consiste nel suscitare nuove idee, nutrire bisogni meno materiali, concorrere a formare una classe di cittadini più educati e civili, metterla in comunicazione con altre forme di civiltà, sviluppando in loro non quello che è locale, ma quello che è comune.”
Elio Vittorini, nel suo Diario in pubblico, scrive che la cultura è, invece, “la forza umana che scopre nel mondo le esigenze di mutamento e ne dà coscienza nel mondo”.
Nel Mediterraneo vi è di comune, tra i popoli rivieraschi, la cultura legata al mare ed al duro lavoro che in esso si svolge; il resto è diversità.
E’ proprio su quest’unico, ma forte, punto d’unione che dovremmo tentare di costruire insieme il nostro difficile futuro comune. Certo, siamo ancora lontani da un Mediterraneo pacifico; eppure, ricorda lo storico inglese Arnold J. Toynbee: se non ci fosse stata quella via d’acqua non sarebbe fiorita nessuna civiltà”.
Gli fa eco il croato, premio Nobel per la Pace, Pedrac Matvejevic:”Anche le apparenze mediterranee sono significative. L’estensione dello spazio, la peculiarità del paesaggio, la compattezza d’assieme creano l’impressione che il Mediterraneo sia ad un tempo un mondo a sé ed il centro del mondo: un mare circondato da terre, una terra bagnata dal mare”.
La storia del Mediterraneo è contenuta nei suoi fondali così ricchi, soprattutto in prossimità delle coste e delle isole, di testimonianze e memorie dei secoli passati da essere veri e propri musei sommersi. E questo perché il “mare Nostrum”, navigabile per quasi tutto l’anno e principale, se non unica, via di comunicazione tra i popoli rivieraschi, ha ospitato traffici navali intensi ed eterogenei, le cui tracce sono facilmente rinvenibili in relitti di tutte le epoche.
La testimonianza storica delle civiltà mediterranee è, quindi, proprio lì, sul fondo del mare.
Conoscere e preservare le nostre diverse radici culturali, sulle quali poter costruire un futuro di pace e di collaborazione per giungere ad una civiltà mediterranea, rappresenta una strada obbligata, un traguardo ambizioso. Non per costruire una globalità, sia pure limitata al Mediterraneo, me per realizzare quell’unione mediterranea di popoli che, sia pure con diversità storiche, culturali, religiose e di costume, devono essere capaci di raggiungere quei livelli indispensabili di dignità umana e di libertà individuale, basati sul rispetto reciproco, che rappresentano i pilastri sui quali si regge la “Civiltà”.
Gli aspetti che testimoniano l’intreccio dei rapporti economico-culturali svoltisi tra i Paesi rivieraschi del Mediterraneo, in ogni epoca storica, sono costituiti dal carattere delle popolazioni situate al nord e al sud del Mediterraneo. Nei Paesi situati al nord del Mediterraneo, con le invasioni barbariche del III e del IV secolo inizia a calare il sipario sulla scena occupata per molti secoli dall’impero romano d’occidente.
Le invasioni barbariche rappresentano un elemento importante nella formazione dell’unità europea, perché fornirono la “materia umana” che si aggiunse alle altre due parti dell’identità europea: la cultura classico-alessandrina ed il Cristianesimo.
I popoli barbari, termine che sicuramente non equivale a “selvaggi”, vantavano forti tradizioni culturali che influirono sia sui popoli circostanti, sia sulle superiori culture del Mediterraneo Orientale. Solo l’impero bizantino resse alle invasioni, grazie alla sua solidità politico-militare, alla sua forte struttura economica ed alla sua strategica posizione geografica. Costituiva, infatti, il punto mediano di una vasta rete di traffici che andavano dall’occidente mediterraneo, all’ India, alla Cina, alla Russia, all’Etiopia, all’Africa Centrale.
L’impero di Bisanzio esercitò una grande influenza non solo politica ed economica, ma anche culturale, sull’Occidente e sull’ Oriente slavo e persino su quello islamico.
Nei Paesi situati a Sud del Mediterraneo, attraverso le conquiste militari, ma più ancora attraverso il commercio e l’espansionismo culturale, furono invece gli Arabi a prevalere nella civiltà, per tutto il Medioevo.
Il segno più duraturo della loro presenza si riscontra ancora oggi nei numerosi termini che compaiono nelle lingue europee, nell’astronomia, nella matematica, nelle scienze naturali, nella toponomastica e nel più vasto campo delle occupazioni e delle funzioni giuridiche. Per questa ragione è stato affermato che l’Europa dovrebbe guardare agli Arabi come ad uno dei propri antenati culturali.
Il rapporto tra i Paesi a Nord ed a Sud del Mediterraneo, deve essere, infatti, valutato tenendo anche conto degli apporti scientifici e tecnologici di questi ultimi Paesi.
L’ Occidente è debitore verso gli Arabi di un patrimonio culturale nel quale si sono inserite anche le culture dell’Egitto, della Persia, dell’India e della Cina.
Solo per fare qualche esempio: alla cultura araba dobbiamo la conoscenza del timone e della vela, quella della tecnologia della tessitura e dell’irrigazione agricola; mentre dall’India c’è giunta la numerazione decimale, dalla Cina, oltre alla polvere da sparo, la carta e, forse, la tecnica della stampa. Nonostante che al sorgere dell’ISLAM l’Occidente avesse appena finito la sua battaglia contro il paganesimo e, quindi, nonostante la diversità religiosa e lo stato di belligeranza, non furono impediti i rapporti economici e politici, che sorsero spesso su basi di reciproca simpatia. Ne è prova la “singolare tolleranza” di cui godettero i mercanti cristiani in terra musulmana.
Al tempo degli Abbasidi, poi, questa tolleranza era ancora più esplicita se è vero che i cristiani greci e siriani, a Baghdad, non solo commerciavano liberamente e frequentavano le loro chiese, ma addirittura ricoprivano alte cariche nell’amministrazione mussulmana. Inoltre, scienziati e matematici bizantini erano sollecitati a recarsi a Baghdad per insegnare nelle scuole.
Afferma lo scrittore cristiano Teilhard de Chardin: “La storia insegna che l’umanità ha un destino comune”. Fa eco dal mondo islamico il detto che “la comunità universale dei credenti è UMMA (gradita a Dio)”. Entrambi i proclami sembrano testimoniare la necessità di una medesima condivisione.
Questo esige che tutti i Paesi siti al Nord ed al Sud del Mediterraneo s’adoperino per rendere possibile un comune destino. E’ necessario agevolare il dialogo nella vita quotidiana tra gli individui appartenenti ai Paesi rivieraschi, entrando in un rapporto sincero e rispettoso dei valori di ognuno.
E’ necessario creare un buon rapporto umano. Infatti, le persone possono prescindere dai contrasti, dalle differenze dottrinali e protendersi nello slancio di una mutua comprensione. Solo conoscendo ed accettando i punti comuni e le differenze.
Purtroppo, nel Sud del Mediterraneo, vi è ancora un’intolleranza che sembra senza fine e che riacquista vigore ogni volta che la diplomazia internazionale cerca di riavvicinare i contendenti.
Chi fomenta le rivalità è nemico di quella civiltà che, con tanta fatica, cerchiamo, pur nella diversità, di rendere comune.
Erasmo da Rotterdam ha lasciato scritto, nei suoi “Adagi”, che se metti su una bilancia da una parte i vantaggi e dall’altra gli svantaggi, ti accorgi che una paca, sia pure non giusta, è spesso migliore di una guerra equa.
Nei Paesi posti al Nord del Mediterraneo, la vita quotidiana vede ormai individui, originari di tutti i Paesi rivieraschi, vivere nelle stesse scuole, negli stessi luoghi di lavoro ed usufruire delle stesse strutture socio-assistenziali.
Da questo vissuto comune e dalla reciproca conoscenza nascono le occasioni per consolidare l’accoglienza e l’amicizia. Questo significa che una convivenza pacifica e rispettosa non può che derivare da un convinto spirito d’accoglienza e da una sincera volontà di fratellanza.
In definitiva, è da questo interagire che è possibile sperare in un futuro di rapporti migliori, non solo sul piano economico-finanziario, ma anche e soprattutto sul piano della convivenza pacifica e del progresso sociale.
Bisogna, certo, sfatare la previsione macabra d’ Oliver Wendell Holmes, il quale affermava che:”Tra due popoli che intendono costruire mondi tra loro incompatibili, non vedo altro rimedio che la forza. Ogni società si fonda sulla morte di uomini” e anche quella meno macabra, ma forse ancora più coattiva di Ennio Flaiano il quale era convinto che: “Quando i popoli si conosceranno meglio, si odieranno di più”.
La cultura marinara, che già unisce i popoli che si affacciano sul Mediterraneo, ha ancora bisogno di una maggiore trasparenza di rapporti che ci permetta di lavorare sul mare e sotto il mare, in un rispetto reciproco che preluda ad una sempre maggiore collaborazione per valorizzare, in particolar modo, le testimonianze che giacciono sui fondali, meravigliosamente avvolte dall’oblio dei secoli, che attendono di essere riscoperte per ricordarci le comuni radici.
Fgiordano.br 10giugno2009
Per comodità espositiva, mi limito a riportare i titoli delle pagine del Corriere della Sera di lunedì 8 giugno sulle elezioni europee.
“Avanzano i conservatori, disfatta della sinistra. Da Parigi a Berlino, a Budapest socialisti umiliati. Europarlamento dominato dal PPE. Un crollo storico per la SPD tedesca. Merkel vede la fine della grande coalizione. (In Francia) i verdi di Cohn-Bendit agguantano il PS. L’Ump di Sarkozy si conferma in testa. Zapatero paga il conto della crisi. Dopo 5 anni PSOE scavalcato dal Pp. (Gran Bretagna) Gordon Brown, la sconfitta più dura. Labour al minimo storico. Gli xenofobi del Bnp entrano a Strasburgo. Voto in Europa: La protesta. Ultra destra e populisti scuotono il Continente”.
Sono titoli ad effetto. Ma indicano una realtà? Non ne sarei tanto sicuro. Il vero dato significativo è quello dell’astensionismo che, nei 27 paesi membri, ha raggiunto il 56,7 per cento dei circa 380 milioni di aventi diritto al voto. Tale disinteresse, unito al voto espresso di euroscettici, rappresenta davvero un dato allarmante sul grado di popolarità dell’Europa. Per il resto mai come stavolta i fatti interni dei vari Paesi hanno pesato sui fatti europei.
La crisi si è fatta sentire ovunque e, con l’occhio alla crisi, i cittadini europei si sono prevalentemente vendicati sui loro governi. Non in tutti i casi però: il crollo dei partiti di sinistra in Francia, Gran Bretagna, Germania e Spagna è stato inatteso se non altro nelle proporzioni. Ma la sinistra arretra da qualche anno e ci sarebbe da chiedersi perché. Mancanza di rinnovamento? Perdita dei contatti con la base sociale? Inconsistenza dei loro leader? Sorprende che in Italia, malgrado la martellante polemica contro Berlusconi, egli si sia salvato da un crollo annunciato. Alla fine l’opposizione se l’è presa con il mancato raggiungimento, da parte di Berlusconi, dei suoi ambiziosi obiettivi. Poiché lo sfondamento non c’era stato in realtà aveva perso o quasi perso.
Se torniamo all’Europa c’è poco da stare tranquilli. Essa sembra sempre più un’allegra brigata di giocatori senza allenatore e senza società, senza schemi e senza regole. Un’accozzaglia di 27 numeri uno. Ognuno per sé e nessuno per tutti. Un Parlamento senza poteri, una Commissione senza seguito, una Costituzione senza adepti, una politica senza politica, un’economia … ?
Certo che, in una situazione di crisi generalizzata, farebbe ridere la permanenza del criterio della stabilità dei conti e del debito pubblico che, ricordo, fu la croce del governo di centro-sinistra in Italia, con il suo mèntore Tomaso Padoa Schioppa, e una delle ragioni, se non la ragione, della sua sconfitta, a discapito di un centro-destra che si dimostrava molto più attento agli interessi dei cittadini italiani. Il classico caso di un cambio dei panni fra sinistra e destra che creò disorientamento e proteste.
Occorrerà battere altre strade. Così per l’immigrazione, per la politica estera comune, per la difesa comune, per i piani di sviluppo dell’economia, soprattutto nei paesi di nuova adesione, per la sicurezza. Vedremo che cosa saranno capaci di fare. Io penso che non ci sia da stare allegri. L’Europa si dovrà misurare con problemi molto gravi, compresi quelli epocali dell’inquinamento al livello mondiale, e della permanenza nel mondo di popoli alla fame (altro che i nostri cittadini che non arrivano alla fine del mese), che produrrà fenomeni di sradicamento della popolazione senza precedenti.
Su tali problemi si misurerà la capacità dell’Europa di fronteggiarli e contribuire alla loro soluzione, altro che una astratta diatriba fra destra e sinistra, sui venti dell’est e dell’ovest. E su quella base si comprenderà se i cittadini europei hanno davvero assimilato l’idea dell’Europa sentendosi finalmente parte di una così grande nazione e non ospiti riottosi e/o quasi estranei.
Sono spunti per un dibattito fra noi, nessuna “verità” dunque, solo l’inizio di un discorso.
lorenzo.rm 10 giugno 2009
Se ci mettiamo a contare, ci rendiamo conto che ci sono più persone che sedie, in questa sala d’attesa, gremita di gente. Come sono delicati i nostri amministratori, che cercano di creare confusione con leggi e leggine, che obbligano i cittadini a rivolgersi ai patronati, per farsi aiutare, in questa giungla di decreti, che creano solo confusione. Poveri pensionati che, dopo tanti anni di onorato lavoro, devono combattere con una burocrazia farraginosa e incomprensibile. Forse hanno pensato di rendere la loro vita più movimentata, rompendo la quotidiana monotonia, pensando di agire nei loro interessi. Siamo il paese che della burocrazia si è sempre fatto un vanto, distinguendosi da tante altre nazioni democratiche. Chi ne fa le spese sono sempre i poveri pensionati e comuni mortali, che non hanno santi in paradiso e devono affrontare da soli pratiche sempre più complicate. E’ triste scoprire che tanta gente, per non perdersi in code interminabili, debba alzarsi prestissimo, la mattina, e sostare davanti a quel portone, nella speranza che qualche impiegato “illuminato” si presenti un po’ prima dell’orario, e possa così guadagnare un posto a sedere, col numero in mano, ed evitare che altre persone ignorino la fila. Quanta stanchezza traspare sui volti delle persone, lì sedute! Mi guardano con curiosità, mentre sono intento a scrivere delle impressioni su ciò che accade, aspettando il mio turno. Sono lì anch’io, infatti, e per ingannare il tempo che si prospetta molto lungo, scrivo ciò che penso dello spettacolo che ho davanti agli occhi. Le persone parlano ad alta voce, esponendo il loro problema, nella speranza che il vicino ne sappia qualcosa in più, e che possa dare delle informazioni al riguardo. La macchinetta che indica i numeri progressivi talvolta volte si inceppa, richiamando l’attenzione dei presenti, particolarmente attenti. C’è sempre qualcuno che cerca di scavalcare la fila, ma viene subito individuato e rimesso al suo posto. E’ interessante osservare ciò che accade in queste circostanze. In modo particolare le donne che, col loro fare battagliero, fanno valere i loro diritti, enumerando le varie faccende che hanno dovuto abbandonare per passare la mattinata in estenuante attesa, e vogliono giustamente rispetto. Una donna, tutta sudata, per il gran caldo, che in questi giorni imperversa in tutta Italia, chiede all’impiegata, a gran voce, la chiave del bagno per andare a rinfrescarsi un po’ . C’è anche una signora anziana, appoggiata ad un bastone, che si è fatta aiutare per salire le scale. E’ una vecchina deliziosa, saluta con un bel sorriso, dalla sua bocca esce, stanco ed affannato, un buongiorno rivolto a tutti. Colpiti dal suo dolce modo di fare, ci siamo alzati per farla accomodare, dopo averla salutata., Sicuramente non ha mai avuto nessuno che si occupasse di lei, forse non è stata nemmeno sposata, lo si capisce a dal suo portamento fiero, di chi è abituato a cavarsela da sé nella vita, e ho avuto anche l’impressione che si trattasse di una persona molto sicura e preparata. Forse è stata un’insegnante, perché si esprimeva con frasi molto precise e termini ricercati, una persona di cultura, e con fare molto gentile. Ha suscitato subito la simpatia di coloro che la ascoltavano, e i dialoghi si intensificavano piacevolmente. Il tempo passa e la confusione aumenta. La concentrazione si affievolisce, l’atmosfera che si stabilisce è interessante e mi rimetto a scrivere, per estraniarmi e per poter osservare, con tranquillità, ciò che accade intorno a me. Penso a chi ci governa e ci amministra. Deve aver capito che la gente è nata per stare insieme, perché tra un sorriso e un lamento, torna a casa stanca ma contenta di aver trascorso qualche ora in compagnia di persone con le quali condividere gli stessi problemi, in modo cordiale e spontaneo. Quello che mi ha colpito di più è stato un signore, seduto davanti a me, con lo sguardo incollato al pavimento e le guance che si muovevano da sole. Non capivo cosa stesse facendo, se fosse afflitto da un tic o altro. Non ha mai pronunciato una parola, è rimasto muto come un pesce, che sembrava voler imitare. Un altro canticchiava, per ammazzare l’attesa, e dava l’impressione di sapere tutto quello che stava accadendo; e a ogni squillo di telefono ne imitava il suono, per far capire quanto fosse fine il suo udito. La ciliegina sulla torta arriva con l’entrata di un signore, accompagnato dalla figlia in stato interessante, chiedendo permesso per passare avanti, tra lo stupore e la rabbia dei presenti, e blocco anch’io la mia penna. Vi lascio immaginare quello che accade: si levano voci concitate e risentite, di fronte ad una richiesta cosi esplicita. La lunga attesa ha reso tutti molto nervosi, la confusione regna sovrana, ed è così incontenibile che l’impiegata allo sportello è costretta a interviene, per calmare gli animi. Cerca anche di convincere i presenti di sospendere le loro recriminazioni sulla burocrazia e tutti i disguidi che ne derivano, in fondo poche ore d’attesa non sono la fine del mondo! Grazie governanti, voi sì che la sapete lunga, queste attese estenuanti che ci regalate, in fondo, che saranno mai!
http://www.youtube.com/watch?v=K_6HLL-emow
Domenico 10 giugno 2009
L’amicizia-collaborazione tra i due artisti è stata molto stretta per un corto periodo, ma anche molto sofferta e drammatica, sebbene si stimassero e si ammirassero vicendevolmente. Tanti interrogativi sono ancora aperti a proposito di quella convivenza.
Questo articolo di flavio46 affronta proprio l’aspetto umano, di quel periodo travagliato, che i due pittori trascorsero insieme ad Arles tra il 1888 e il 1889.
«Un giorno,» ci racconta Gauguin nelle memorie autobiografiche “Avant et Après” «vinto dagli slanci sinceri d’amicizia di Vincent, mi misi in viaggio. Giunsi ad Arles sul finir della notte e attesi il mattino in un caffé notturno. Il proprietario mi guardò e gridò: “Siete voi l’amico, vi riconosco”.
Un autoritratto che avevo mandato a Vincent è sufficiente per spiegare l’esclamazione del padrone. Facendogli vedere l’autoritratto, Vincent gli aveva spiegato che si trattava di un amico che sarebbe venuto prossimamente. Né presto né tardi andai a svegliare Vincent. La giornata fu consacrata alla mia istallazione, a molte chiacchiere, alle passeggiate per permettermi d’ammirare le bellezze di Arles e le arlesiane, che tra parentesi non hanno suscitato il mio entusiasmo. All’indomani ci mettemmo al lavoro(…).Tuttavia mi ci vollero alcune settimane prima di cogliere esattamente il sapore aspro di Arles e dei suoi dintorni. Ciononostante lavoravamo sodo, soprattutto Vincent. Tra i due, egli ed io, uno vulcanico ma l’altro anche ribollente, ma al di dentro, c’era anche un preparativo di battaglia.
Anzitutto trovai in ogni cosa un disordine che mi colpi. La scatola dei colori era appena sufficiente per contenere tutti quei tubetti calcati dentro, mai tappati, ma malgrado questo disordine, questo guazzabuglio, sulla tela tutto era nitido; cosi anche nelle sue parole. Daudet, De Goncourt, la Bibbia bruciavano nel cervello dell’olandese (…).
Nonostante i miei sforzi per riordinare questo cervello disordinato e trovare una ragione logica nelle sue opinioni critiche, non potei spiegarmi tutto ciò che v’era di contraddittorio fra la sua pittura e le sue opinioni. Quanto tempo rimanemmo insieme? Non saprei dirlo avendolo dimenticato del tutto. Malgrado la rapidità con la quale la catastrofe arrivò; malgrado la febbre di lavoro che mi aveva preso, tutto quel tempo mi parve un secolo. Senza che il prossimo ne dubitasse, due uomini fecero là un lavoro colossale utile a entrambi. Forse utile agli altri? Certe cose danno i loro frutti ».
Nelle prime settimane di vita in comune Gauguin impera nella casa e impone le sue opinioni artistiche, cui l’olandese, felice d’aver iniziato il suo “Studio del Mezzogiorno”, si adatta volentieri. Ma per Vincent la pittura è una presa di contatto diretta con l’esterno, una comunicazione con un fatto reale, osservato, colto si può dire nel suo attimo di vita. Per Gauguin invece è un valore pensato, rielaborato, visto nello studio, o addirittura inventato desumendolo da documenti e da annotazioni magari anche disparati. Vincent si lascia prendere al gioco — per lui quasi una trappola — della teorizzazione sintetica.
In dicembre i due pittori visitano il Museo di Montpellier, e davanti ai quadri Gauguin, come sempre, pontifica con una crudità diretta e sfacciata. Vincent espone le proprie opinioni, e ne nasce una discussione accanita, al termine della quale nessuno dei due si sente contento.
Gauguin scrive: «Ad Arles sono del tutto spaesato, talmente trovo tutto piccolo, meschino, il paesaggio e le persone. Vincent ed io siamo ben poco d’accordo in generale, soprattutto in pittura. Egli ammira Daumier, Daubigny, Ziem e il grande Rousseau, tutta gente che io non posso sopportare. E per contro detesta Ingres, Raffaello, Degas, tutta gente che io ammiro; io rispondo “brigadiere, avete ragione” tanto perché mi lasci in pace. Ama molto i miei quadri, ma quando li faccio, trova sempre che ho torto per questo o per quello. Egli è romantico, ed io sono piuttosto portato ad uno stato primitivo. Dal punto di vista del colore vede i casi della materia, come in Monticelli, e io detesto l’intruglio tecnico… ».
Non è tutto: anche il tenore di vita che Gauguin conduce è per Van Gogh insostenibile. Già al limite delle proprie forze per un lavoro accanito, per un anno di lotte contro il vento e il sole, con i problemi quotidiani, il cibo, la solitudine, l’allestimento della casa, Vincent dovrebbe ora riposarsi. Gauguin per contro, più robusto, un vero colosso, sopporta bene l’alcool, le nottate in bianco, le visite a “quelle signore” nel cosiddetto “quartiere caldo” di Arles. In parole povere egli ama gli eccessi, ma il suo compagno non è assuefatto né preparato ad una vita del genere. Né è disposto, a mano a mano che i giorni passano, alle critiche aperte, alla negazione formale delle sue qualità.
Ora Gauguin sembra volergli scalzare, con le sue teorie, tutta questa sicurezza, e ripropone a Vincent, con la sua presenza, le critiche, le diatribe e le polemiche di Parigi, che l’olandese ha fuggito. Vincent si oppone alla teoria, alla presenza della politica, della filosofia e dei preconcetti nella pittura.
Tra i due pittori quindi nessuna intesa concettuale. Cosicché la differenza di carattere e di vita scava tra i due un abisso. Le forze di Vincent non possono sostenere l’urto, e giorno dopo giorno si delinea il fallimento del progettato Atelier du Midi. La mattina del 23 dicembre scrive al fratello che Gauguin ne ha abbastanza di Arles, delle arlesiane, di lui. Anche Gauguin da una relazione dettagliata di quelle giornate, ma suona come una testimonianza poco attendibile e, conoscendone il carattere, piuttosto fanfarona. Disse più tardi, infatti, contro ogni verità: «Egli sapeva creare solo delle dolci armonie incomplete e monotone; lo squillo di una tromba gli mancava. Mi assunsi io il compito di illuminarlo cosa che mi fu facile, perché trovai un terreno ricco e fertile. Da allora il mio Van Gogh fece progressi stupefacenti. In me ha trovato insegnamento fecondo».
Ma veniamo alla conclusione tragica delle giornate di Arles, e leggiamo Gauguin: « Nell’ultimo tempo del mio soggiorno Vincent fu per un poco alquanto impulsivo e chiassone, finendo poi con il chiudersi nel mutismo. Qualche sera mi accadde di sorprenderlo mentre, alzatosi, s’avvicinava al mio letto. Non mi so spiegare come potessi svegliarmi proprio in quegli istanti. Comunque bastava che gli dicessi: “Che avete, Vincent?”, perché se ne tornasse a letto senza dir parola, ricadendo in un sonno profondo. M’ero accinto in quel tempo a fargli il ritratto mentre intento a dipingere la natura morta che amava tanto, quella dei Girasoli. Come l’ebbe finito, sbottò a dire: ‘Sono proprio io, ma diventato pazzo!’. La stessa sera ce ne andammo al caffé.
Egli ordinò un leggero assenzio. Ad un certo momento d’improvviso mi tirò in testa bicchiere e contenuto. Scansato il colpo, lo presi e lo portai fuori dal caffé traversammo place Hugo e qualche minuto dopo Vincent era a letto e s’addormentava subito. Dormì ininterrottamente fino al mattino. Appena svegliato si rivolse a me con calma: ‘Mio caro Gauguin, mi pare di ricordarmi di avervi offeso, iersera’. E io: “Volentieri vi perdono, ma penso che la storia di ieri potrebbe ripetersi e, se venissi colpito, potrei anche non sapermi dominare, e strangolarvi. Permettete dunque che scriva a vostro fratello dicendogli che intendo andarmene”.
Dio mio che giornata! La sera, dopo aver mangiato in qualche modo, sentii il bisogno di uscire da solo per andare a prendere un po’ d’aria lungo il sentiero dei larici in fiore. Avevo quasi attraversato place Hugo quando avvertii alle mie spalle quei brevi passi rapidi, sconvolti che conoscevo bene. Mi voltai proprio nell’attimo in cui Vincent si precipitava su di me con un rasoio aperto in mano. Ben forte dev’essere stato in quel momento il mio sguardo, se Vincent si arrestò e, subito dopo, a testa bassa, si diresse correndo verso casa.
Che io sia stato debole allora? Avrei dovuto disarmarlo e persuaderlo a calmarsi ? Più volte ho interrogato la mia coscienza ma non ho mai trovato motivo di rimproverarmi. Mi si giudichi come si vuole. Fatto sta che qualche minuto dopo già mi trovavo in un buon albergo di Arles dove, dopo aver chiesto l’ora, presi una camera e mi misi a letto. Agitato com’ero non mi riusci di addormentarmi prima delle tre del mattino, e mi svegliai tardi, verso le sette e mezza. Raggiunta la piazza vi trovai un assembramento di gente. Sotto la nostra casa c’erano i gendarmi e un piccolo signore con la bombetta, il commissario di polizia. Le cose erano andate così: appena rientrato Van Gogh si era immediatamente tagliato netto un orecchio, raso alla testa.
Penso che abbia messo un bel pò per arrestare l’emorragia, poiché il giorno dopo vennero trovate sul pavimento dei due locali tante salviette inzuppate. Il sangue si era sparso per le due stanze e sulla scaletta che conduceva alla nostra camera da letto. Comunque, appena in grado di uscire si diresse con un basco ben calato sulla testa in uno di quei posti dove c’è sempre una ragazza sottomano, e consegnò alla tenutaria il suo orecchio ben pulito e messo in un involto. “Tenete, disse, per mio ricordo”, e via di corsa; rientrato si buttò sul letto e si addormentò ».
Anche il quotidiano locale, “Le Forum républicain”, diede annuncio dell’avvenimento in un trafiletto di cronaca locale, che pose cosi la vicenda sulla bocca di tutti: «Domenica scorsa il nominato Vincent Vaugogh (sic), pittore, originario d’Olanda, s’è presentato alla casa di tolleranza n. 1, ha chiesto di una certa Rachele e le ha consegnato… il suo orecchio dicendole: “Conservate questo oggetto preziosamente”. Poi è sparito. Informata di questo gesto che poteva essere solo quello di un povero alienato, la polizia s’è recata l’indomani mattina da questo individuo che ha trovato a letto, e che non dava quasi più segni di vita. Lo sventurato è stato ricoverato d’urgenza all’ospedale».
Una precisazione si impone: Vincent non si tagliò l’orecchia, ma solo il lobo. Non ebbe una grave perdita di sangue, e non sporcò molte salviette.
Del tormentato periodo trascorso con Gauguin gli restano soprattutto due quadri raffiguranti ciascuno una sedia: quella di Vincent, solitaria, con una pipa e del tabacco; quella più imponente di Gauguin, con una candela accesa e dei libri. Sono, anche queste due tele, dei ritratti che presentano il dramma, e che con una carica emotiva e psicologica preannunciano la solitudine di Vincent.
Dimesso dall’ospedale il 7 gennaio 1889, Vincent torna ad interrogare se stesso. Si dipinge con le bende attorno alla testa, ma con un’aria calma, tranquilla, quasi distaccata. Scrive a Theo per rassicurarlo, e scrive anche una lettera affettuosa a Gauguin, senza un accenno al passato, senza un rimprovero. Solo alla fine domanda: «Ditemi, il viaggio di mio fratello Theo era proprio necessario?».
Riprende la vita usuale e va a trovare spesso il postino Roulin, il solo amico che gli sia rimasto ad Arles.
Fra gennaio e marzo ritrae più volte sia lui che la moglie, Agostina. Non c’è più nulla da temere. «Ho una tale voglia di lavorare – scrive al fratello – che ne sono stupito».
Nella casa vuota, rimasta aperta alla discrezione della polizia e della pioggia, l’umidità ha sciupato un buon numero di opere durante la sua assenza.
Qui egli si sente davvero infelice, svuotato. Scrive a Theo: «Non soltanto l’Atelier finito, ma anche gli studi che avrebbero potuto esserne il ricordo sono rovinati; e cosi il mio slancio per fondare qualcosa di semplicissimo ma di durevole…».
Il 9 febbraio, allo stremo dello scoramento, stanco per le notti insonni, va a farsi ricoverare ancora.
Rey lo cura e lo rimanda ben presto a casa. L’amico Roulin ha ottenuto un avanzamento, e lascia Arles per Marsiglia, Vincent è ora del tutto solo.
I bambini, per la strada, gli tirano a volte dei sassi quando passa, o si aggrappano alle inferriate della sua casa gridando: «Al matto, al matto! ». Anche i giovanottelli vi si mettono. Uno di loro confessò più tardi: «Ero allora fra i gagà del momento. Eravamo una banda di giovanotti tra i sedici e i vent’anni, e come degli stupidi ci divertivamo a gridare ingiurie a quell’uomo che passava, solitario e silenzioso, con una camicia grossolana indosso e uno di quei cappelli di paglia a buon mercato che si potevano acquistare dovunque. Ma lui li ornava con un nastro azzurro o giallo. Mi ricordo, e con quanta vergogna ora, di avergli tirato dei torsoli di cavolo ».
Qualche volta rispondeva con male parole. Allora alcuni abitanti del quartiere – v’è sempre qualche vecchia zitella che vuol compiere un gesto sociale – scrissero una petizione in cui si chiedeva di allontanare l’artista; anzi si esigeva il suo internamento in manicomio. La petizione venne inviata al sindaco, che diede seguito alla cosa senza nemmeno consultare il dottor Rey o prendere informazioni.
Vincent ne dà notizia al fratello: «Ti scrivo in pieno possesso delle mie facoltà e non da folle, ma da fratello quale mi conosci. Ecco la verità. Un certo numero di persone di qui ha presentato al sindaco (credo che si chiami Tardieu) una petizione (c’erano più di ottanta firme) che mi descrive come indegno di vivere in libertà, o qualcosa del genere. Il commissario di polizia o il commissario generale ha perciò dato ordine di internarmi di nuovo. Eccomi cosi da lunghi giorni tenuto sotto chiave e catenaccio, sorvegliato a vista nella cella d’isolamento, senza prove certe o possibili della mia colpevolezza».
Flavio46 10 giugno 2009
Se Vincent Van Gogh avesse saputo… che cento anni dopo la sua morte, un milione di visitatori l’anno si sarebbero recati in un museo, tutto dedicato alla sua opera…
Molti artisti, purtroppo, hanno avuto una vita spesso miserabile o non hanno raccolto in vita le soddisfazioni che speravano di ottenere. E sono morti nell’oblio o addirittura pazzi. Questo è il caso di Vincent van Gogh che, disperato per il mancato successo, si sparò al petto, il 27 luglio del 1890.
Ormai e’ davvero impossibile immaginare che Vincent van Gogh abbia potuto sconfortarsi, per la mancanza di interesse nella sua pittura, sino al punto di suicidarsi.
OLANDA 1880-1885
Van Gogh nacque in Olanda, vicino ad Anversa il 30/03/1853, figlio di un pastore protestante. Incominciò come mercante d’arte, ma fu un insuccesso e all’età di 27 anni cominciò ad educarsi alla pittura con lo studio della figura, soprattutto contadini, e dei paesaggi. Datano dell’inverno 1885 un gran numero di studi ed in particolare uno dei suoi dipinti più famosi: ”I mangiatori di patate” che ritrae una famiglia di contadini, seduta a tavola, la sera, mentre consuma una cena frugale a base di patate. È un quadro davvero speciale dove la famiglia è ritratta sotto un alampada e il gioco di luci ed ombre crea una suggestione tutta particolare.
MANGIATORI PATATE (1885)
PARIGI 1886-1888
Nel 1885 Vincent si trasferì a Parigi, raggiungendo il fratello Theo e lì ebbe occasione di venire a contatto con le opere di grandi artisti come Millet, Delacroix, Monet e Manet. Incontrò anche Paul Gauguin con il quale vivrà poi ad Arles, un periodo breve, ma intenso e pieno di attriti, nell’autunno del 1888.
ARLES 1888-1889
Vivevano nella “ casa gialla” che dipinse nel 1888 e van Gogh, per rallegrare la stanza di Gauguin dipinse i famosi “ girasoli”.
Risale a quel periodo un litigio famoso, tra Paul Gauguin e Vincent van Gogh, durante il quale van Gogh minacciò Gauguin con un coltello, per poi pentirsene poco dopo e per autopunirsi si tagliò un pezzo del lobo dell’orecchio.
(questa è una teoria, recenti studi propongono un’altra versione: fu Gauguin che gli tagliò l’orecchio)
SAINT-RéMY 1889-1890
La sua malattia si aggrava e si fece ricoverare in un ospedale psichiatrico dove gli permisero di continuate a dipingere.
campo di grano con corvi 1890
AUVERS-SUR-OISE 1890
In questo piccolo paese vicino Parigi van Gogh passò gli ultimi mesi della sua vita: infatti decise di porre termine ai suoi giorni, sparandosi, il 27 luglio 1890 e morì due giorni dopo,alla presenza dell’amato fratello Theo.
La sua produzione di opere fu molto proficua: si pensi che la sua vita da artista durò solo dieci anni: dal 1880 all’anno della sua morte 1890. In questo periodo il suo genio artistico produsse circa 900 dipinti, 1100 disegni.
I suoi dipinti cominciarono a ottenere i primi riconoscimenti proprio nell’estate del 1890, ma van Gogh aveva perso ormai tutta la sua carica iniziale. Scriveva al fratello Theo: “ Mi sento fallito…per quel che mi riguarda, credo che questo sia il mio destino. Lo accetto, non cambierà più”
Tutte le informazioni che abbiamo sulla vita di Vincent van Gogh le dobbiamo principalmente alla fittissima corrispondenza con suo fratello Theo. Centinaia e centinaia di bellissime lettere ci portano la testimonianza della sua tragica vicenda umana: gli amori infelici,il mancato riconoscimento del suo lavoro, la malattia, il suicidio. Anche dal punto di vista letterario questa corrispondenza è molto importane.
Ci ha lasciato una quantità enorme di opere che producono delle emozioni visive molto forti: colori vividi intensi, tecniche differenti. Quei fiori che escono dalla tela e di cui ci sembra di sentire il profumo.
Se soltanto avesse potuto immaginare…che avessero costruito un museo tutto per lui e la sua opera
(www.vangoghmuseum.com) dove sono conservati più di 200 suoi dipinti
Se avesse potuto intuire minimamente…che i suoi girasoli sono riprodotti, quasi come un’ossessione, un po’ da per tutto, addirittura sulle scatole di cioccolatini, fino all’estremo di essere sulle lenzuola di una nota casa di biancheria… Quanto dolore sarebbe stato risparmiato.
paolacon 28 maggio 2009