Questa volta vi viene proposto qualcosa di diverso: una storia, presa dal web, ma il finale non soddisfa. Resta sospeso, non chiaro, forse si vorrebbe sapere di più.
Allora facciamola finire diversamente, come la completereste? Avete voglia di provarci?
Ancora: chi era la donna? e secondo voi chi e’ l’uomo, il mercante?
IL MERCANTE DI SOGNI. preso dal web
C’era una volta, in un paese lontano, un uomo.
Nessuno ricordava il suo vero nome e da quanto tempo vivesse in quel paese.
Abitava in una casupola quasi diroccata in periferia, circondata da un giardino incolto e abbandonato.
Non aveva amici, l’unico essere che divideva con lui la vita, era un vecchio cane meticcio dal pelo fulvo e crespo.
Trascorrevano la giornata all’angolo di una via sotto un porticato: l’uomo seduto su una vecchia sedia di legno e il cane accovacciato ai suoi piedi.
Aveva un aspetto dimesso ma dignitoso, portava vecchi pantaloni di velluto e una giacca sportiva con tante tasche, aveva il volto scavato e magro e dei grandi occhi neri, una capigliatura fluente e scura. Trascorreva intere giornate senza parlare, rimaneva lì fermo con lo sguardo fisso in un punto lontano come rapito da immagini che solo lui riusciva a vedere.
Fumava una vecchia pipa che conservava in una tasca della giacca, la teneva spesso in bocca spenta e per vuotarla del tabacco usato, la batteva sul muro, faceva questo sempre allo stesso modo: tre colpi leggeri e l’ultimo più forte.
Aveva gli occhi da gitano, occhi simili a braci che scavano dentro l’anima fino a carpire i desideri più reconditi.
Questa era la merce che lui vendeva…sogni…
Uomini e donne si rivolgevano a lui per sentirsi narrare i propri desideri, lui non li disattendeva: con voce flessuosa e suadente li raccontava… ed ecco che sogni e proiezioni divenivano vivi, reali e palpitanti.
Immagini di boschi incantati dove dispettosi folletti si rincorrevano nascondendosi in piccoli anfratti, mari burrascosi dove onde impetuose si infrangevano su piccoli pescherecci, giochi amorosi di giovani cuori che scoprivano l’amore, viaggi in terre inesplorate e sconosciute… prendevano forma sotto quel porticato anche se per pochi attimi.
Ecco che un giorno andò da lui una donna.
Non era di quel paese e aveva viaggiato a lungo, era stanca e chiese all’uomo di sedere sulla sua sedia, il mercante si alzò e la donna sedette emettendo un lieve sospiro, cominciò a guardarsi intorno come per orientarsi, infine abbassò lo sguardo rimanendo in silenzio.
Rimase così per qualche istante poi volse lo sguardo al mercante e disse: ”Ho saputo che tu riesci a realizzare i desideri a chi te lo chiede, mi hanno raccontato di aver visto immagini di folletti dispettosi rincorrersi in questo porticato, violente mareggiate crearsi dal nulla e giovani cuori vivere l’amore tanto anelato, io sono qui per chiederti di realizzare il mio sogno: ecco sono pronta a pagare quello che mi chiederai, purché tu riesca a realizzarlo adesso… qui…
Il mercante ascoltava pensieroso, si accovacciò accanto alla donna prendendole la mano, poi, guardandola negli occhi, cominciò a parlare di una terra lontana…
e fu così che… :
l’orizzonte si tinse di rosso e un raggio di sole illuminò il porticato creando giochi di luce e di ombra, apparve un mare azzurro e spumeggiante che si infrangeva sulla scogliera, le case bianche brillavano sotto la luce del sole e nell’aria il profumo di zagara giungeva fino in riva al mare.
Pescatori coi volti scavati dal vento, riparavano reti nel piccolo porticciolo, dove i pescherecci erano pronti a salpare per la pesca notturna, giovani scugnizzi si rincorrevano per i vicoli dove il sole riusciva a malapena a filtrare, donne vestite di nero sedute sull’uscio ricamavano corredi che forse non avrebbero mai utilizzato, la campana della piccola chiesa barocca scandiva il tempo che, lentamente, passava. La terra prendeva colore dalla semina e campi verdi si succedevano a quelli gialli macchiati di rosso, per poi tingersi di rosa e di bianco.
In cima ad un piccolo monte, posto a sud del paese, c’era un piccolo cimitero, lì anime pie e dannate riposavano assieme, scaldate dallo stesso sole e cullate dalla stessa luna.
Le lapidi guardavano tutte verso il mare, erano protese verso di esso, come in un estremo gesto di rincorsa alla vita.
Appena fuori dal paese, dietro una curva, c’era una piccola casa.
Era bianca come le altre, circondata da alberi di castagno che, per il vento che si alzava dal mare, si dondolavano mormorando dolcemente.
Forse le fronde cantavano vecchie canzoni marinare portate dal vento o dolci ninne nanne sussurrate alla luce della luna,
erano lì da tanto tempo quegli alberi, erano, ormai, parte della casa stessa.
La donna, alla visione della casa, sussultò e strinse ancora più forte la mano del mercante.
“ Voglio vedere chi vive in quella casa.. ti prego…” gli disse.
Ed ecco apparire la vecchia cucina col grande camino, la tavola era già apparecchiata, una giovane donna era affaccendata davanti ai fornelli, mentre, un uomo, dal volto aperto ed abbronzato, suonava un vecchio motivo con la fisarmonica.
La musica usciva dalle finestre raggiungendo la valle e perdendosi in essa.
Due bimbi, giocavano su di un vecchio tappeto rosso con delle costruzioni di legno, ridevano e scherzavano, c’era una atmosfera dolce, impregnata d’amore.
La luce filtrava all’interno da grandi finestre che si affacciavano sul piccolo golfo, la brezza muoveva le tende che si tendevano spiegandosi nel vento, sul davanzale una pianta di glicine era in fiore, i suoi grappoli fioriti si dondolavano allegramente.
La giovane donna portò a tavola una grande pentola fumante, sedettero tutti, pronti a gustare quel cibo frutto di lavoro e di sacrificio…
Il sogno svanì improvvisamente, nel porticato la luce era flebile, i profili del mercante e della donna si stagliavano sulle pareti di mattoni, lei teneva le braccia conserte in grembo, il suo sguardo era luminoso, perso nel sogno appena svanito, il mercante la osservava poi, accendendosi la pipa, disse: “Qui mi debbo fermare, non posso carpire sogni che non ti appartengono, tu hai voluto rivedere la casa dove sei stata felice, ora sai che altre persone sono felici come lo sei stata tu e che la vita scorre in quel paese come allora.
Probabilmente hai voluto riassaporare il tuo passato, o meglio ancora,il passato che ti ha resa serena, soddisfatta di te stessa.
Ricordati comunque, che non è nel passato che troverai la forza di vivere, ma nell’accettare il tuo presente, i fatti e le persone che giorno per giorno incontrerai nel tuo cammino.”
La donna allungò una mano nella quale teneva delle monete, il mercante la guardò, si alzò sorridendo, senza dire altro le voltò le spalle prendendo la strada che lo avrebbe portato a casa sua, dove anche lui, avrebbe trascorso la notte sognando… anelando chimere, giocando con visioni e fantasie proprie, per tornare sotto il porticato l’indomani, quando, come tutte le mattine, l’orizzonte si sarebbe tinto nuovamente di rosso.
Roberta
A VOI IL COMPITO DI TROVARE UN ALTRO FINALE A QUESTA STORIA, DI COMPLETARLA SE VI VA.
Ancora un articolo-informazione interessante di Alfred-Lollis per nostra conoscenza e curiosita’
Attenzione, una notizia terribile:
è dimagrito il KILO!!!!.
All’ultimo controllo del peso il Chilogrammo è risultato essere più leggero.
Il cilindro di metalli preziosi (platino e iridio) custodito in Francia che è il peso campione per tutti i pesi e per tutte le bilance del mondo è risultato “dimagrito” di < 50\000.000> ( 50 milionesimi) di grammo dall’anno della sua costruzione risalente al 1876. Fino a quella data ogni paese aveva in uso pesi e misure propri creando non poche difficoltà nello scambio delle merci e nel commercio.
Ora è una tragedia: calcolando le pesate fatte, basandoci su quel campione, in un giorno sull’intero pianeta si può calcolare che qualche chilo di roba varia manchi all’appello.
Pare che il “calo” di peso si dovuto ad una perdita di gas dai metalli stessi (sich !)
Ora questo puo dare l’idea della drammaticità della notizia in un paese come il nostro dove, da sempre, siamo abituati all’esattezza delle misure, sia di peso, sia lineari, sia di capacità ( specie nell’erogazione del gas o delle pompe carburante) o nelle quantità esatte di materiali occorrenti nelle costruzioni sia private che pubbliche: scuole, strade, ponti, ospedali…..ecc.
Il pensare che qualcuno ci possa “fregare sul peso” ci fa stare male, ci annichilsce. Non era mai successo!…
Questa notizia è stata tratta da un’importante rivista femminile e pubblicata con grande risalto:
una intera pagina per spiegare che il chilo di patate non sarà più un chilo ma ne mancheranno un
<50\milionesimi> di grammo, un granello di sabbia dice l’autore dell’articolo. Bene, dateci le patate appena più interrate e saremo pari. Oppure ci renderete una patata tra qualche anno!
Dato che c’è chi sta cercando di impadronirsi dell’acqua del pianeta e che il chilo corrisponde ad un litro di acqua pura, mi viene il sospetto che ci si possa impadronire anche del chilo per farne quello che poi si vuole.
Dice il dott. Quinn<” Mi rendo conto che per la maggior parte delle persone (noi) si tratta di un’inezia”
ma per noi scienziati è di vitale importanza”>
“Le grand kilo”come viene chiamato in Francia viene toccato rarissimamente e con straordinarie precauzioni” ( e costi aggiungo io) per controllarne l’integrità.
Viene conservato con ogni cura in ambiente protetto dalla luce, dall’aria, umidità e a temperatura costante.
La differenza di peso la si è potuta constatare confrontando il “chilo campione” con altri “cinque identici”………………………….(e se fossero quelli ad essere “bulimici”?)
Leggendo questo articolo sto cercando di conciliare l’importanza che danno al fatto gli scienziati e quella che può dare la signora che, al mercato, compera le patate alleggerite.
Personalmente preferirei che questi scienziati, oltre che dell’anoressia del cobalto di Parigi, si occupassero anche di altre cose forse più banali ma per la gente comune molto più importanti.
Ognuno scelga quali.
Spunto tratto da un articolo apparso su Gente del 8\3\2011
Ti piacciono i ragazzi, sei gay. Questo era il linguaggio preferito dei compagni di scuola di Marco 16 anni era uno studente molto bravo in uno degli istituti tecnici di Torino. Era sempre preso di mira e lo schermivano giorno dopo giorno e cosi continuavano da tempo della presa di giro del solito “branco” Tutti contro di lui. Questa brutta storia durava da un anno di tante vessazioni, e Marco ha ceduto non ha resistito più. Non andava più a scuola, si è rinchiuso in se stesso, e ha scritto una lettera. Ha deciso di farla finita con una coltellata e poi con un volo dalla finestra.
LA SCATOLA DEI RICORDI preso dal web ma bello da condividere
C’era una volta una donna, Con occhi di smeraldo e lunghi capelli biondi che trascorreva parte del suo tempo, seduta, nella sua villa tra i fiori. Portava sempre con sé, sulle ginocchia, una scatola bianca dove aveva gelosamente conservato tutte le lettere d’amore che il suo Marco le aveva scritto in quegli anni d’amore e di felicità, che avevano trascorso insieme.
Ogni giorno, con grande amore e delicatezza, per paura quasi di sciuparle, ne apriva qualcuna e con la mente ed il cuore ritornava indietro per risentire quell’insieme di dolci sentimenti ed emozioni che aveva provato quando, insieme a lui, trascorreva la sua vita.
Nella sua mente, nessuno aveva più preso il suo posto e lei lo ricordava sempre con grande amore e tenerezza, ricordando i suoi abbracci e l’immenso amore che era stato capace di donarle.
Un brutto giorno d’agosto, qualcuno, nella speranza che il suo gesto potesse farle dimenticare quell’amore, prese la scatola bianca con dentro le lettere e le sue fotografie, accese il fuoco e la brucio’.
Ella accorse inutilmente, tentando di salvare qualcosa di quei messaggi d’amore ma ormai tutto si era ridotto in cenere……
Pianse disperatamente per quella scatola che rappresentava per lei l’unico contatto che possedeva per illudersi di essere vicina a Marco.
La sua vita ormai, distrutta dal dolore per averlo perduto e dal vedere ormai la cenere di ciò che possedeva di più caro al mondo, non aveva più valore e ormai, piena di rimpianti, si aggirava da sola in quella villa, divenuta troppo grande per lei.
Come ogni sera, si inginocchiò davanti l’altare della chiesetta dove era solita pregare e con tutta la forza del mondo, alzò gli occhi al Crocefisso e parlò col Signore: “Signore, io ho buttato al vento in un solo giorno il suo amore, potrai mai perdonarmi per quello che ho fatto? Sto espiando la mia colpa da troppi anni ed ora non voglio più vivere……il peso della rinuncia di questo amore è troppo grande…………aiutami a morire”….
Poi si alzò, si fece la croce e, stanca e provata dalla giornata e da quell’evento sciagurato, tornò a casa , si stese sul divano e si addormentò.
In sogno le apparse il Signore e prendendola per mano, le disse: Esci dalla tua casa, troverai le tue risposte!”
Si svegliò con ancora il ricordo di quel sogno che l’aveva toccata dentro e ricordando le parole del Signore, uscì di casa, senza una meta precisa. Decise di tornare in città dove avrebbe trascorso del tempo camminando nelle strade del centro.
Poi si ricordò di un negozio di elettrodomestici, dove con Marco avevano comprato alcune cose per la loro futura vita insieme.
Iniziò a visitare tutti i reparti di quel negozio che l’aveva vista felice insieme a lui e, girando attorno ad uno di questi, si sentì mancare……non riusciva a capire il perchè di queste forti sensazioni.
Le tremavano le gambe…poi all’improvviso, alzò i suoi occhi di smeraldo, e lo vide…….
Marco era lì, dopo tutti quegli anni, di fronte a lei! Anche lui, dopo tanti anni era lì, era entrato per ricordarla……
Si abbracciarono così forte da fondersi un una sola anima e mentre si baciavano, le loro lacrime si univano scendendo come rivoli d’argento, dai loro volti. Marco, la guardò teneramente e le disse che questa volta era per sempre, che non avrebbe mai più permesso che lei andasse ancora via!
Così, uscirono insieme abbracciati………e, confondendosi tra la gente, andarono incontro alla vita.
Il Signore aveva voluto restituire loro quell’amore che avevano perduto…
Egli sapeva che si sarebbero amati per sempre e che un amore così grande sarebbe rinato ancora. (Antares)
Una riflessione di Alfred su quanto utile e importante sia il pc per noi in “seconda giovinezza”
Me ne sono rimaste poche, lo schema è quasi completato e queste non le so. Neppure con gli incroci arrivo a capire.
Spesso si intuisce, spesso è un termine che ho sentito anche senza conoscerlo e per completare lo schema di “Ghilardi” delle parole crociate è sufficiente, ma questi proprio non li ho mai sentiti. Ghilardi con Bartezzaghi sono terribili: 29 orizzontale-” la camicia con le asole al colletto”
18 verticale: ” le isole di una chitarra che di solito ha quattro corde” ( di solito……..),
17 verticale: ” l’Augusto che diresse <Lo squadrone bianco>.
Diresse…………allora è un film. Un lavoro teatrale……mai sentito!!!!
Mi scervello di ricordare, di abbinare, rileggo gli alri incroci nel caso avessi sbagliato. Niente. Non le so e basta.
Non mi va di lasciare uno schema di parole crociate incompleto.
Prima del pc andavo a fare ricerche sull’enciclopedia, ora basta Google, trovi tutto. Anche con troppa facilità.
Digito <lo squadrone bianco> e subito ho la risposta che tanto mi ha fatto dannare: Augusto Genina. Mai sentito in vita mia.
Incuriosito comincio a leggere < IL FASCISMO RACCONTATO DAL FASCISMO>.
Curioso occhiello questo. Sapevo di cineasti e registi americani che hanno filmato scene di guerra ricostruendole,
sapevo delle riprese artefatte dei comizi oceanici di Mussolini e così mi sono inoltrato nella lettura di quell’articolo tra l’altro inaspettatamente di attualità trattandosi di un film del regime dedicato alla colonizzazione della Libia.
Sintetizzo dall’articolo:
un ufficiale deluso in amore viene trasferito a sua richiesta nella colonia. La dura vita del deserto fòrgiano il carattere del giovane che diventerà il vero uomo di cui il Fascismo ha tanto bisogno. Diverrà tanto valoso da assumere lui il comando della guarnigione.
Dal sito:
” Squadrone bianco venne finanziato direttamente dal governo perché esaltasse la colonizzazione italiana in Libia e la conseguente missione di civilizzazione che l’Italia vi avrebbe svolto, in coincidenza con la conquista dell’Etiopia e con la proclamazione dell’Impero.”
Qualcuno di noi ricorda per aver visto o solo per sentito dire dell’esistenza del “sabato fascista” dei “Balilla” delle
“Giovani Italiane” dei giovani “Avanguardisti” sfilare impettiti
in armi in interminabili manifestazioni alle quali non era concesso non partecipare.
Ancora dal sito:
“La vita militare, il sano e virile cameratismo e il carisma di comandanti fermi e decisi trasformano Mario (le cui pene d’amore esprimono una fragilità psicologica che mal si concilia che il severo impegno che richiede il suo ruolo), nel perfetto paradigma del valoroso italiano, dominatore e guida delle inferiori popolazioni africane, idealizzato dal fascismo.
Mitologia imperialista e coloniale (che, a dire il vero, furono già un portato dell’Italia umbertina e prefascista), paternalismo autoritario, razzismo, maschilismo, misoginia, esotismo confluiscono, seppur con gradazioni diverse, in questo tipico prodotto di propaganda.”
Ecco, ho trovato quello che cercavo. Ho completato lo schema di Ghilardi e ho imparato cose nuove: sto meglio.
***************************************
http://www.pacioli.net/ftp/def/paciolicinemaecineteca/PacioliCinema/3-Film/Film2001/176.htm
In questi giorni la nazione Norvegia, compatta tutta, in tanto dolore, ha dato una dimostrazione di grandissima civiltà ed equilibrio. Non sarà più come prima della strage nel paese, ma i cittadini non vogliono ripudiare il loro credo di tolleranza , libertà e integrazione. Guardando le foto dei giorni della tragedia, guardando questa folla compatta, composta, dignitosa, distrutta dal dolore, si nota quante persone di colore ci siano. La Norvegia, come altri paesi del Nord Europa ha aperto le frontiere con grande generosità e sottoscritto una politica di integrazione. A questo non vuole rinunciare, nonostante la tragedia che così duramente l’ha colpita. Forse alcuni punti della politica di accoglienza saranno rivisti, ma non si faranno passi indietro.
La lettera di un giovane di 16 anni che nell’inferno di Utoya c’era, si è salvato riuscendo a nascondersi, ma ha visto morire i suoi amici, esprime bene lo spirito del popolo norvegese.
La riporto per dare opportunità a chi non l’ha letta sul giornale, di venirne a conoscenza.
Ivar Benjamin Oesteboe ha 16 anni ed ha scritto direttamente a Breivik una lettera aperta su Facebook:
Tra le tante cose dice con molta durezza rivolgendosi all’assassino: «Hai fallito»
«Tu crederai forse di aver vinto. Uccidendo i miei amici e i miei compagni, tu forse credi di aver distrutto il partito laburista e coloro che in tutto il mondo credono in una società multiculturale, ma sappi che hai fallito.
Non sei un eroe. Ma una cosa è sicura: tu di eroi ne hai creati.
A Utoya, in quella calda giornata di luglio, tu ha creato alcuni fra i più grandi eroi che il mondo abbia mai prodotto, hai radunato l’umanità intera.
Tu sei l’uomo più odiato di tutta la Norvegia, ma io non sono arrabbiato. Io non ho paura di te. Non ci puoi colpire, noi siamo più grandi di te. Noi non risponderemo al male con il Male, come vorresti tu. Noi combattiamo il Male con il bene. E noi vinceremo».
Ce n’è di che riflettere…
Tags: immigrazione, integrazione, norvegia
“Bologna è una donna emiliana di zigomo forte,
Bologna capace d’ amore, capace di morte,
che sa quel che conta e che vale, che sa dov’è il sugo del sale,
che calcola il giusto la vita e che sa stare in piedi per quanto colpita…”
(Francesco Guccini)
Stamani ascoltavo questo passaggio della canzone “Bologna” di Francesco Guccini ripensando a quel drammatico 2 agosto di trentun anni fa, tragedie passate, ferite ancora aperte e mai risolte. I rappresentanti del nostro governo nemmeno ritengono necessario presenziare alla commemorazione… Cetti, che vive a Bologna ha scritto una riflessione molto amara e Giuliano ha rievocato con poche righe i fatti di quel tragico 2 agosto.
Un ricordo dovuto.
I “Brevnik” italiani sono liberi. Evidentemente non è bastato a Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro avere ucciso complessivamente un centinaio di persone (93 Fioravanti e 95 Mambro) per ricevere come pena il carcere a vita. E’ fatto noto che in Italia non esiste la certezza della pena, ti condannano per avere ammazzato 100 persone e dopo 16 anni di carcere ti danno la semilibertà, dopo 26 di carcere permanente e 10 di semilibertà ti danno la libertà. Mi chiedo: cosa mai dovrebbe fare un criminale per farsi almeno 30 anni di carcere permanente? In Italia, per i reati più gravi, al massimo ti danno 30 anni di carcere, di questi 30 anni al massimo te ne fai 16 (tra riduzioni delle pena per buona condotta, indulti, condoni, continuità di reato ecc..). E ci lamentiamo del fatto che Brevnik sconterà solo 21 anni (se verrà condannato per terrorismo) di carcere oppure 30? (se verrà condannato per crimini contro l’umanità). A differenza degli stragisti italiani, lo stragistra norvegese, probabilmente, se li farà tutti i suoi
Oggi a Bologna sanguina una ferita mai guarita…
Scritto da cetti.bologna
2 agosto 1980-Strage di Bologna
Alle 10.25 esplode una bomba nella sala di attesa della stazione di Bologna. La deflagrazione è violentissima: crolla un’intera parte dell’edificio, compresi alcuni uffici e le sale di attesa; una trentina di metri della pensilina sono devastati e l’urto investe il treno Ancona-Chiasso in sosta.
I morti sono 85, 200 i feriti.
È uno degli atti terroristici più gravi avvenuti in Italia nel secondo dopoguerra, e ad oggi si sa ancora poco su chi furono i mandanti, anche se non mancano gli indizi e le testimonianze.
L’orologio di Piazzale della Stazione segna ancora le 10.25 e ogni anno i treni presenti sui binari scandiscono con un fischio l’istante preciso in cui una bomba seminò il panico nella città e nel Paese.
Anche quest’anno,come nel 2010, nessun ministro o sottosegretario o..sarà presente né alla cerimonia in comune,riservata all’incontro istituzioni -famigliari delle 85 vittime, né tantomeno sul palco davanti alla stazione.
Solo una parola, ripetuta all’infinito,VERGOGNA,VERGOGNA…
Scritto da Giuliano.roma
PRIMA DI PARTIRE PER LE VACANZE GIULIANO CI SUGGERISCE QUESTA SEMPLICE OPERAZIONE, MOLTO UTILE
AGGIORNARE I BROWSER = PIU’ SICUREZZA
Sapete tutti che il web è pieno di malware, trojan pronti a entrare nei computer per catturare informazioni e passarle a estranei malintenzionati.
Ora non è più Windows l’obiettivo preferito di virus e malware, la Microsoft ha migliorato considerevolmente la sicurezza dei sistemi grazie agli aggiornamenti automatici e altri strumenti di sicurezza gratuiti che proteggono, silenziosamente ma con efficacia i computer.
Gli attacchi principali su internet oggi sono quindi orientati verso i programmi che utilizziamo per navigare i siti web basandosi soprattutto sull’ignoranza, l’inesperienza e la mancanza di senso di sicurezza.
Un esempio: vi sarete certamente imbattuti, durante la vostra navigazione su
“hai vinto 10000 Euro, clicca qui”, o altre scritte simili, dovete sapere che se lo avete fatto pensando “io ci provo, non si sa mai, che potrà mai succedere?”
Avete lasciato delle vostre informazioni una su tutte il vostro IP (Internet Protocol address).
L’IP è un numero con due funzioni principali: identificare un dispositivo sulla rete e fornirne il percorso di raggiungibilità.
Quindi prerequisito fondamentale per navigare su internet in modo sicuro, senza rimanere vulnerabile a qualsiasi soffio di vento, è aggiornare il browser Internet.
Il browser internet, sia esso Internet Explorer, Firefox, Chrome, Opera, Safari o qualsiasi altro, deve essere aggiornato sempre all’ultima versione per essere sicuri di avere installate le patch di sicurezza.
Non solo, anche i plugin e le estensioni (Il flash, Java, il pdf reader ecc) devono essere aggiornati.
Quando un software viene prodotto, è soggetto a errori di scrittura del codice e malfunzionamenti, chiamati bug, che sono scoperti successivamente al rilascio del software stesso.
Gli aggiornamenti servono a coprire questi errori (patch letteralmente “pezza”).
I browser sono tutti (o quasi) dotati della ricerca e installazione automatica degli aggiornamenti.
Solo Google aggiorna Chrome senza che sia richiesto l’intervento manuale mentre gli altri browser, almeno per ora, visualizzano la notifica di aggiornamento, ma non sono automatici e richiedono un vostro click.
Non rimandate fatelo subito si tratta di pochi minuti compreso il riavvio del computer.
Se volete, infine, controllare se sono aggiornate le vostre estensioni e i plugin del vostro browser, gli sviluppatori di Mozilla hanno creato una pagina web chiamata Mozilla Plugin Check .
(http://www.mozilla.com/en-US/plugincheck/)
Questa pagina è del tutto automatica e subito controlla e v’informa se la versione di ogni plugin del proprio browser web è l’ultima disponibile ed è quindi sicura.
Il controllo analizza i plugin installati sul computer per il browser web utilizzato e li confronta con la versione più recente offerta da chi lo sviluppa e lo distribuisce.
Dedicate pochi minuti per navigare con più sicurezza, buon lavoro.
Come verificare i punti della patente su Internet.
Come si controlla il saldo dei punti della patente online?
Vi siete mai trovati nella condizione di voler sapere quanti punti vi sono rimasti dopo alcune infrazioni?
Solitamente per vedere quanti punti sono rimasti sulla propria patente di guida, in Italia, bisognerebbe chiamare un numero a pagamento, questo 848782782. Chiamando il numero (costo di una telefonata urbana) una voce guida vi chiederà data di nascita e numero della patente per restituirvi come risultato il saldo punti sulla patente.
Il sistema più rapido e diretto per verificare il saldo dei punti online, oltre a tutta una serie di altre informazioni (scadenze, bollo, revisioni e così via), è il portale dell’automobilista Questo utile sito è stato istituito dal Ministero dei Trasporti e permette di controllare i punti della patente online attraverso una semplice registrazione.
Il sito è questo: https://www.ilportaledellautomobilista.it/
Il servizio offerto dal portale dell’automobilista è completamente gratuito e sicuro.
Basta andare nella sezione Cittadino e cliccare sul link di registrazione (obbligatoria). La procedura di registrazione è abbastanza lunga perché bisognerà immettere la vostra anagrafica completa, codice fiscale compreso, e il numero di patente anche se non obbligatorio ma necessario per verificare il saldo punti.
Oltre al saldo punti vi permette di avere sottocontrollo svariati servizi tra i quali:
- Pagamento online pratiche automobilistiche
- Consultazione delle statistiche immatricolazioni
- Saldo punti patente
- Estratto conto patente
- Modulistica
- Dati di sintesi dei veicoli a te intestati
- Verifica duplicabilità (patente e carta di circolazione)
- Consultazione stato pratica (patente e carta di circolazione.)
Una chicca da segnalare: il sistema a registrazione effettuata è in grado di capire se siete registrati ai servizi di Bancoposta (come la PostePay) e visualizzerà la vostra login utilizzata per tale account.
Se siete dei guidatori/guidatrici virtuosi/e arriva il bonus dei punti patente:
I 20 punti dati in dotazione con la legge del 2003 crescono, infatti, automaticamente ogni due anni per i guidatori più virtuosi. Due punti ogni due anni e a luglio scade il quarto biennio con la conseguenza che i più bravi in assoluto arriveranno a quota 28 punti.
Proprio in questi giorni mi è arrivata mail con la comunicazione dell’incremento dei due punti.
Sarà strano ma questo sportello…funziona!
Da una nota della motorizzazione leggo che dei 35 milioni di automobilisti in possesso di patente nel nostro Paese, quasi 26 milioni hanno ottenuto il bonus di due punti.
Ecco un bel racconto di Adso… ampio è lo spunto che ci dà per riflettere
IL DOLORE DI UN AMICO
(Racconto basato su una Storia Vera)
Al mio amico Marco.
*
Entrai nel bar a un orario in cui i fumi esalati dai grappini e dalle “Vecchia Romagna” consumati da coloro a cui serve una sferzata per iniziare la giornata, stavano per essere completamente assorbiti dall’aroma delle brioches appena sfornate. Mi sedetti al tavolino vicino alla finestra per godere della brezza che la domenica estiva concedeva provvisoriamente alle prime ore della mattinata. Nell’attesa del cappuccino e della brioche, tassativamente farcita di marmellata d’albicocca, presi a sfogliare il giornale locale soffermandomi con maggior attenzione sulla pagina della cronaca. Nonostante il giornale uscisse in edicola solo due giorni alla settimana, il giovedì e il sabato, era evidente lo sforzo profuso dalla redazione per trovare un congruo numero di notizie degne di essere pubblicate: la banale scoperta di un aumento del numero delle processionarie nel parco della città si sarebbe guadagnata, senza esitazione, il titolo di prima pagina. Eppure riusciva a consolidare una più che discreta tiratura. Del resto è risaputo come faccia più notizia il vicino di casa che si frattura una gamba cadendo dal ciliegio in giardino, rispetto alle migliaia di morti causate da uno tsunami in un paese di cui abbiamo difficoltà soltanto a pronunciarne il nome. Ma ciò che leggevo con malcelato piacere era la rubrica di “steno nera”. In sostanza si trattava di una sintesi, disposta in ordine cronologico sui giorni della settimana, di piccoli incidenti legati alla viabilità. Ottenevano risonanza anche avvenimenti del tutto trascurabili, in cui non si lamentavano danni né a cose né a persone, e che i soggetti coinvolti avevano risolto all’amichevole, magari limitandosi a mandarsi reciprocamente “a quel paese”. La cosa che però ogni volta mi divertiva era la terminologia fine ottocentesca impiegata nel redigere taluni articoli nella rubrica sopracitata. Ecco un esempio: “Nella giornata di martedì, un autocarro ha urtato un velocipede e il proprietario di quest’ultimo ha avuto la peggio lamentando una ferita abrasa al gomito destro”. Tralasciando ogni giudizio in merito alla ridicola puntualizzazione dell’incolumità dell’autista a scapito del povero ciclista, trovavo altrettanto buffo il ricorso enfatico al termine velocipede, che mi richiamava alla mente un signore impettito, in frac, cappello a cilindro e baffoni a manubrio, che spingeva in avanti un mezzo con la ruota anteriore della circonferenza pari alla ruota di un mulino. Mentre cercavo di formulare una congettura per quelle singolari scelte editoriali che bandivano senza remissione anche il termine motociclista sostituendolo col richiamo epico al centauro, entrò Marco, un mio caro amico. Non lo vedevo da parecchi giorni, forse settimane, tanto che questa sua inusuale latitanza veniva rimarcata ogni sera da qualcuno del nostro gruppo di amici con la fatidica frase: “Ma che fine ha fatto Marco?”, a cui ciascuno forniva un apporto sempre compreso tra il fantasioso e l’inverosimile. Marco si guardò intorno e appena mi vide si diresse verso di me, avanzando come un forzato in catene. Il suo aspetto sofferente mi creò un turbamento che cercai di dissimulare rimproverandolo affettuosamente per aver abusato delle sue risorse e d’aver preteso un po’ troppo dal suo fisico. Ignorò del tutto la mia battuta. Si appoggiò con entrambe le mani allo schienale della sedia di fronte a me e chinandosi in avanti mi sussurrò:
“Speravo di trovarti qui stamattina – ho bisogno di un grosso favore da te”.
Mi stupì il tono supplichevole della sua richiesta. Siamo amici dai tempi delle elementari e abbiamo fatto sempre parte della stessa compagnia che, per usare un eufemismo, era piuttosto vivace, e insieme ne abbiamo combinate di ogni, senza tuttavia mai valicare i confini del lecito. La compattezza del gruppo, che era abbastanza numeroso, si era un po’ allentata a causa del servizio di leva che ci separò, a turno, per quindici lunghi mesi. Anche i più attivi del gruppo tornarono molto ridimensionati nei loro slanci o forse più maturi, tanto da privare gli altri del loro effetto trainante. Alla staticità o peggio alla stagnazione dell’entusiasmo per le vecchie iniziative, subentrò la noia che ebbe come conseguenza una diaspora che assecondava istinti e sentimenti di diversa natura. Qualcuno spariva per un certo periodo e poi ritornava con la “sua ragazza” conquistata fuori dai nostri canali abituali. Fra tutti i componenti del gruppo Marco, che era il più giudizioso, aiutato anche dalla sua indole mite, fu il primo a sentire pressante il bisogno di coltivare una relazione sentimentale stabile. Le sue presenze si diradarono pur senza mai cessare del tutto, e anche quando tornò con Gabriella, che ci presentò ufficialmente come la sua fidanzata, fu quasi solo per un obbligo verso i vecchi amici e non per un effettivo desiderio di reinserirsi stabilmente con lei nella compagnia. Non posso dire di aver conosciuto a fondo Gabriella. La ricordavo superficialmente come una ragazza briosa e dal viso sbarazzino che accentuava ancora di più la sua gaiezza, tale da compensare pienamente la sobrietà a volte eccessiva di Marco: sembravano fatti l’uno per l’altra. Rimaneva soltanto la mia perplessità per certi comportamenti un po’ esagerati di lei, configurabili come dei capricci infantili, e che Marco accettava con un’indulgenza che rasentava la sottomissione. Tuttavia dovetti prendere atto che il loro rapporto procedeva ormai da un paio d’anni senza apparenti problemi.
E Marco era lì davanti a me, un uomo in balia di qualcosa di indefinito e spaventoso. Il suo volto non accusava solo segni di stanchezza come quello di chi ha perso molte ore di sonno, ciò che colpiva era l’impronta del dolore che segna il volto di chi sta soffrendo da troppo tempo. Lo conoscevo da una vita e non l’avevo mai visto in quello stato: doveva trattarsi di qualcosa di molto serio. Mentre facevo cenno al barista di portargli un caffè, lo invitai a sedersi pregandolo solo di non mortificarmi con una richiesta impossibile che non avrei potuto soddisfare, e che invece per tutto il resto avrebbe potuto contare su di me. Mi parve un po’ più rinfrancato e accennò un sorriso malinconico. Si sedette e io stetti ad osservare per un po’ le dita delle sue mani che si intrecciavano nervosamente con le sue pene, poi butto lì di getto:
“Devo urgentemente raggiungere Gabriella che è ricoverata al sanatorio di “O”, e questa mattina non ho il mezzo per arrivarci”.
Sapevo che in quel luogo finivano tutti i malati di tubercolosi polmonare, e a stento riuscii a dissimulare lo sconcerto che mi procurarono le sue parole. Per superare la difficoltà del momento gli chiesi con pacatezza da quanto tempo era ricoverata e lui mi rispose da più di due mesi. Praticamente il tempo della sua latitanza dalla compagnia. Stavo formulando la domanda sulle condizioni fisiche di Gabriella quando lui mi afferrò il polso pregandomi di avviarci subito perché aveva molte cose di cui parlarmi e intendeva farlo durante il tragitto. Conoscevo il luogo e il percorso per raggiungerlo. “O” è un paese che confina con quello in cui sono nato e da cui mi trasferii con tutta la famiglia da bimbetto. Ricordavo spezzoni di conversazione dei miei genitori che mi impressionavano, a proposito di quell’ospedale, che consideravano luogo di sventura dal quale ci si poteva già considerare miracolati ad uscire, anche con il fisico minato per sempre. Ricordi di un bimbo di cinque anni, quando il tasso di mortalità per queste forme di malattia era altissimo. Marco trangugiò il suo caffè in un sorso, e uscimmo per raggiungere la macchina. Per il primo tratto di strada rimanemmo in silenzio. Marco era assorto nei suoi pensieri e immaginai che stesse elaborando una versione dei fatti da espormi. Rimasi in attesa, lasciando a lui la decisione di come e quando farlo. Lo sentii emettere un sospiro profondo, poi iniziò a raccontare:
“Tutto ebbe inizio verso la fine dell’inverno scorso, con Gabriella affetta da una tosse persistente e febbre molto alta che si protraeva da diversi giorni. Il medico di famiglia aveva diagnosticato con troppa leggerezza che si trattava di una forma influenzale con una secondaria complicazione broncopolmonare che a suo giudizio si sarebbe risolta con una buona dose di antibiotico a largo spettro. Trascorsa una settimana di cure, degli auspicati miglioramenti non c’era traccia e Gabriella sembrava deperire sempre più. Non recuperava l’appetito e il pallore sul viso era sempre più accentuato: era ridotta uno straccetto. Confidai la mia preoccupazione ai genitori che si convinsero a sottoporla ad una visita specialistica e a un esame radiologico. L’esito fu sconvolgente: era affetta da una grave forma di TBC. I genitori mi comunicarono la diagnosi quando lei era già stata ricoverata in un sanatorio di cui, nonostante le mie insistenze, mi fu negato il nome. Addussero come pretesto, perché di questo si trattava, che per un periodo di almeno tre settimane, Gabriella sarebbe stata tenuta in totale isolamento e che i sanitari si erano altresì raccomandati di evitare anche contatti telefonici inessenziali. Rimasi molto amareggiato da quello che interpretai come un ingiusto accantonamento e una mancanza di fiducia nei miei confronti. Mi mantenni comunque in contatto quotidianamente con la madre per avere sempre notizie aggiornate. Ma ad ogni telefonata sentivo radicarsi in me l’inquietante convinzione che la sua sempre più evidente laconicità avesse lo scopo di aumentare la mia estraneità e di spingermi ai margini degli eventi. Per tre settimane i medici sottoposero Gabriella a cure intensive a base di antibiotici specifici per eliminare qualsiasi possibilità di contagio. Trascorsi tre settimane d’inferno, combattuto tra l’inclinazione ad assecondare brutalmente l’istinto di andare in soccorso di Gabriella, e il ricorso a un fragile autocontrollo che rendeva sempre più arduo mantenere il comportamento razionale che mi confinava dentro un’impotente attesa. Finalmente venne il giorno in cui nulla e nessuno avrebbe potuto ostacolare il mio riavvicinamento a Gabriella. Scelsi di recarmi di persona alla sua abitazione, deciso a pretendere dai suoi genitori che mi fosse comunicato il nome e l’indirizzo dell’ospedale in cui era ricoverata la figlia. Fui accolto con estrema freddezza dalla madre che alla mia richiesta cercò ancora una volta di tergiversare attuando la medesima strategia usata nei contatti telefonici. La incalzai senza flettere dalla mia ferma volontà di incontrare Gabriella. Lei si oppose strenuamente intimandomi, per il bene di sua figlia, di rinunciare a qualsiasi contatto perché le cure avevano debellato il male ma l’avevano molto debilitata e ora, ciò che le serviva, era un lungo periodo di convalescenza lontana da emozioni e stress. Esasperato dall’inaccettabile spiegazione le rivolsi a muso duro l’accusa di mentirmi spudoratamente fin dall’inizio di questa incredibile storia. Presagivo una dura reazione alla mia accusa, ma non di quella violenza. Uno spasmo le deformava la fisionomia mentre mi urlava contro che lei, da madre, aveva solo rispettato la volontà di una figlia gravemente malata che, già nell’immediatezza della diagnosi, l’aveva supplicata di lasciarmi completamente all’oscuro della sua sorte, e di ricorrere a qualsiasi mezzo affinché io la dimenticassi. Incoraggiata dagli effetti devastanti delle sue parole, che si erano abbattute su di me come una travolgente ondata nera, e constatata la mia ormai irreversibile vulnerabilità, continuò ad infierire. Con il volto livido sibilò gelidamente che Gabriella non aveva mai più chiesto di me, nemmeno una volta da quando era ricoverata, se non per avere rassicurazioni che il loro patto continuasse ad essere rispettato.
Ero sconvolto, non potevo credere che la stessa persona che mi aveva sempre dimostrato stima e simpatia avesse subito una metamorfosi tale da accanirsi in un modo così malvagio.
Dovevo assolutamente scoprire dove si trovasse Gabriella. Non potevo rassegnarmi a dover vivere in un incubo e a subire una situazione così confusa, assurda, inaccettabile. Cercai di contattare con molta discrezione tutte le persone che la conoscevano, indagai anche nel suo ambiente di lavoro, ma inutilmente: qualcuno sapeva della sua malattia ma non dove si stesse curando, altri guardandomi con diffidenza avevano eluso le mie domande e altri ancora, con espressione stupita, mi risposero che ne sentivano parlare da me per la prima volta. In principio scartai tutti i suoi legami di parentela che mi erano noti per non scontrarmi nuovamente contro un muro di reticenza e di omertà. Poi mi sovvenne di una sua cugina, di qualche anno maggiore di noi e già sposata, con cui, io e Gabriella, avevamo instaurato un bel rapporto e trascorso piacevoli serate in compagnia del marito, persona affabile quanto lei. La chiamai al telefono e le chiesi di poterla incontrare a una qualsiasi ora del giorno e della notte perché avevo urgente bisogno di parlarle. Il suo silenzioso esitare mi angosciò, ma prima di sentirmi respingere anche da lei, le confessai che ero alla disperata ricerca di qualcuno che mi aiutasse a dare un senso a questa storia, a comprenderla affinché, per il bene di tutti, potesse trovare il suo epilogo. Giunsi perfino ad umiliarmi chiedendole per pietà di aiutarmi perché da solo non potevo farcela. Dopo qualche attimo, che mi parve eterno, sentii di nuovo la voce dall’altro capo del filo che mi offriva la sua disponibilità a parlarne direttamente per telefono; riteneva superfluo un incontro in quanto era convinta che l’essenziale fosse già a mia conoscenza, e che altri particolari, se mai ce ne fossero stati, non avrebbero potuto che aumentare la mia sofferenza. Mi confermò totalmente quanto mi era stato vomitato addosso dalla madre di Gabriella, ma al contrario lei reputava un mio diritto conoscere il luogo dove era ricoverata Gabriella e poterle parlare almeno una volta. Mi dettò l’indirizzo e io la ringraziai di cuore. Poi, al momento del commiato, colsi una lieve esitazione nella sua voce. Le chiesi se avesse ancora qualcosa da riferirmi. Colsi il suo imbarazzo ed io insistetti, assicurandola che ero pronto a tutto, e la convinsi a dirmi ciò che lei mi stava pietosamente tacendo per risparmiarmi altri dispiaceri. Con palese riluttanza e sincero rammarico, mi riferì di una confidenza fattale da Gabriella e di cui non erano a conoscenza nemmeno i suoi genitori. Si trattava di un ragazzo, afflitto dallo stesso male di Gabriella, che fin dal suo arrivo la sostenne nel drammatico impatto con quell’ambiente desolato in cui, alla deprimente sensazione che trasmetteva a prima vista, si sommava l’angoscia di non sapere quando se ne sarebbe usciti. Il carattere estroverso, sostenuto da un’accattivante simpatia e il suo prodigarsi con generosità a sostenere chi si trovava in difficoltà, originarono un debito di riconoscenza da parte di Gabriella nei suoi confronti che, col passare del tempo, si era trasformato in un sentimento d’affetto molto, molto profondo. Mentre ascoltavo le parole della cugina sentii qualcosa spezzarsi dentro di me liberando una rabbia devastante. Evidentemente mi ero sopravvalutato, non ero affatto pronto a tutto! Cercai uno sfogo all’astio che mi avvelenava rimarcando sarcasticamente il calcolo freddo con cui il “Buon Samaritano” aveva saputo impiegare le sue eccelse qualità di illusionista per dissolvere un amore vero. La cugina, pur comprensiva per la mia amarezza, mi pregò di non essere ingiusto, anche con me stesso; se una persona aveva aiutato Gabriella in un momento estremamente difficile, era sbagliato dolersene e ingeneroso non dargliene merito. Le chiesi scusa per il mio sfogo meschino e la ringraziai per l’onestà che mi aveva dimostrato.
Appena riattaccai divenni preda di un’agitazione incontrollabile. Il foglietto con l’indirizzo che mi rigiravo fra le dita era la garanzia di un’altra notte insonne. L’ora tarda mi proibiva anche solo di ipotizzare un contatto con Gabriella, ma dentro di me sentivo che se solo mi fossi avvicinato al luogo dove lei si trovava avrei trovato un po’ di pace. Era indispensabile che io andassi là, subito, indispensabile più dell’aria che respiravo. Raggiunsi senza difficoltà il paese. Mi fermai nella piazza centrale, contattai un passante che mi fornì gentilmente le informazioni per raggiungere la casa di cura. Percorsi circa un chilometro lungo la strada che portava fuori dal paese. Le luci fioche delle lampade votive mi segnalarono il cimitero, che corrispondeva all’informazione che mi era stata data. Una volta superato il cimitero, dovevo fare molta attenzione, perché poco più avanti avrei dovuto imboccare una stradina laterale male illuminata che mi avrebbe portato a destinazione. Svoltai a destra seguendo la segnalazione di un cartello con la croce rossa e una scritta illeggibile. Percorsi un primo tratto di campagna piatta e oscura, poi mi venne incontro un bosco e la strada si fece più sinuosa. Quando cominciai a temere che nel buio mi fosse sfuggita qualche indicazione, vidi in fondo a un breve rettilineo un cancello illuminato da una luce giallastra. Mi avvicinai col motore al minimo pregando che non ci fossero cani a tradire la mia presenza. Fermai la macchina su uno spiazzo sterrato. Accostai senza far rumore la portiera e mi avvicinai al cancello. La luce che lo illuminava proveniva da una lampada esterna a una palazzina che presumibilmente fungeva da portineria. Dall’interno non proveniva alcun rumore e le luci erano tutte spente. Oltre il cancello si dipartiva un vialetto che tagliava in due un giardino e conduceva a un grande edificio, che appariva sullo sfondo, disposto su due piani e parzialmente nascosto da alberi di alto fusto. L’ingresso principale era l’unico punto illuminato. I miei occhi rimasero fissi su quel fascio di luce che proiettava come su uno schermo la mia vita con lei, i ricordi del passato, e il presente di una porta che si apriva per far apparire Gabriella. Quella porta non si aprì. Cose simili non accadono nella vita reale. Non so quanto tempo rimasi in quella posizione, ma credimi amico mio, quella sera, davanti a quel cancello chiuso, fu l’ultima volta che sentii Gabriella ancora mia.
Ritornai il mattino dopo e poi il giorno successivo e poi ancora e ancora, sempre lontano dagli orari di visita per evitare spiacevoli incontri con i suoi genitori. L’addetto alla portineria mi aveva assicurato che bastava il consenso della degente per autorizzare l’accesso al visitatore anche fuori orario: Gabriella si fece sempre negare. Non mi rimaneva che arrendermi, lasciando che il destino completasse il suo disegno oscuro, rinunciando alla ragione per difendere ciò che restava della mia dignità di uomo.
La svolta del destino è avvenuta ieri sera, con la telefonata della cugina di Gabriella che mi informava di essere andata a farle visita e di aver concordato un incontro con me per la mattina successiva. Questo è tutto” – concluse Marco col medesimo sospiro con cui aveva iniziato a raccontare.
Rimasi in assoluto silenzio durante il lungo e drammatico racconto, e alla fine mi resi conto di quanto doveva essere complicato per Marco veder chiaro attraverso il velo di lacrime calato dai sentimenti. Avrei voluto imporgli di non sollevare l’ultimo drappo della verità perché si finisce sempre per scoprire più di quanto è necessario sapere, e il superfluo è sempre impregnato di sofferenza. Ma ogni uomo ha il diritto di vivere il suo destino fino in fondo e a pagarne il prezzo. Io tacqui.
Eravamo giunti all’ingresso dell’ospedale. Parcheggiai la macchina nello stesso punto in cui Marco disse di aver sostato la prima sera. Il cancello era spalancato e tutto era armoniosamente a posto: i cespugli di ortensie, il vialetto bianco, il tappeto verde di erba rasata, la simmetrica disposizione degli abeti, gli edifici color giallo ocra uniformemente illuminati dal sole. Tutto era in ordine, tutto con una sua precisa collocazione, tranne Marco ed io. Lungo il vialetto centrale veniva verso di noi un gruppo di sei persone, due ragazzi e quattro ragazze, tra le quali riconobbi Gabriella che camminava a fianco di un tizio biondo con l’espressione da tonto che le cingeva la vita con un braccio. Da quella distanza mi sembrava quella di sempre, allegra e spensierata, ma non ero in grado di valutare quanto per finzione, e sarebbe stato ingeneroso escludere che avesse molto patito le pene della malattia e anche sofferto per le decisioni che ebbe a trarre. Evitai di controllare l’espressione sul volto di Marco e continuai a guardare il gruppo che si avvicinava. Appena si accorsero della nostra presenza, il biondo con l’espressione da tonto intonò a gran voce un vecchio motivo per irridere il mio amico: “E’ arrivato l’Ambasciatore con la piuma sul cappello, è arrivato l’Ambasciatore a cavallo di un cammello …”, strappando una sonora risata a tutti i componenti dell’allegra brigata, compresa Gabriella. A mezza voce Marco mi confermò che la cugina gli aveva descritto il consolatore di Gabriella, il buon Samaritano per intenderci, come un tipo dai capelli biondi. Per il mio temperamento ce n’era d’avanzo per andare a complicargli, a modo mio, i suoi già considerevoli problemi. Marco mi afferrò per un braccio intimandomi di stare calmo per non compromettere tutto. E’ proprio vero che Dio distribuisce i carichi di sopportazione nella misura in cui ciascuno è in grado di reggerli. Nel frattempo il gruppo si era fermato circa a metà del vialetto. Gabriella, dopo essersi svincolata dal biondo, avanzò da sola di qualche passo e Marco a sua volta si avviò verso di lei a passo lento, con cautela, come se avesse dentro di sé qualcosa di estremamente fragile.
Gabriella mi inviò un cenno di saluto agitando la mano con il braccio alzato che contraccambiai nella stessa maniera. Li lasciai soli, fermi uno di fronte all’altra, sottraendomi rapidamente alla loro vista per non dare un’impressione di insofferente attesa che avrebbe potuto in qualche modo condizionare i tempi del loro incontro. M’incamminai per uno stretto sentiero che dal cancello d’ingresso piegava subito a destra ai margini del fitto bosco di abeti. Il viottolo correva parallelo al muro perimetrale aggredito da edera e muschio e leso da squarci di umidità che evocavano volti grotteschi con la bocca spalancata in un urlo agghiacciante che, come tetri simulacri, parevano testimoniare la disperazione che regnava in quel luogo. Gli abeti più possenti che stendevano i rami oltre la sommità del muretto, formavano un tetto ombroso per lunghi tratti del percorso intervallato da vaste aperture che permettevano di osservare il cielo terso, appena solcato da rare striature di nubi sfilacciate dalla brezza. Attraverso i varchi tra gli alberi potevo ancora intravedere il viale centrale e le sagome dei miei due amici, fermi nel punto in cui li avevo lasciati. La cattiva suggestione di quel luogo mi vietava di respirare a fondo il fresco profumo esalato dalla pineta. Lo percepivo uguale in tutto al profumo che aleggia nei boschi di conifere in montagna, ma non mi riusciva che di associarlo all’odore opprimente diffuso dai filari di cipressi di un cimitero. Sentivo sulla pelle il gelido alito di quel luogo di sventura. Ad ogni passo cresceva dentro di me, in modo sempre più incalzante, l’insidioso presentimento che quell’incontro e il dialogo che si stava svolgendo, non avrebbero condotto a niente di buono, tanto che mi ritrovai a scuotere il capo in segno di diniego come per allontanare in qualche modo il triste presagio che si stava fissando nella mia mente.
All’improvviso ebbi la sensazione che dalla penombra del bosco qualcuno mi stesse osservando. Un semplice “ciao” mi confermò la presenza di una ragazza seduta su una panchina con un libro chiuso tra le mani. Due occhi grandi che risaltavano nel pallore del suo viso e il vestito in tinta pastello leggermente vaporoso che le copriva in parte il collo lungo e magro, le donavano un tocco di grazia nobile. Sulle spalle gracili e aguzze, che conferivano un aspetto di fragilità a tutto il corpo, aveva posato un golfino per ripararsi dall’eccessiva frescura della zona ombrosa. Mi avvicinai sorridendo e anche le sue labbra fino ad allora tristemente serrate si aprirono a un tenue sorriso. Le porsi la mano e ci presentammo: si chiamava Elena; e senza alcun motivo logico, maturai la convinzione che nessun altro nome sarebbe stato più adatto alla sua persona.
“Sei venuto in visita a qualche parente?” debuttò con lo sguardo indefinibile, distratto e allo stesso tempo indagatore.
“Ho solo accompagnato un mio amico a trovare la sua ragazza; lei si chiama Gabriella” – le risposi con garbo.
“Ah, quello di prima!” commentò turbata.
“Quello di prima? – Cosa intendi dire!” – le chiesi sorpreso e senza celare un certo disappunto.
“Non fraintendermi, non mi riferivo a un prima o a un dopo di due individui ma a una dimensione molto più grande, alla separazione di due mondi” – aggiunse seria.
“Temo di non comprenderti” – replicai mentre mi sedevo al suo fianco sulla panchina.
“C’è un mondo prima della malattia e un mondo creato dalla malattia – Due mondi vicini, ma divisi da una barriera edificata su una solida base di rabbia e sofferenza, rinunce e rimpianti, che si eleva imponente sostenuta dalle speranze rubate e dalle illusioni perdute e, sulla sommità, l’invalicabile cavallo di frisia della disperazione. Il primo mondo lo conosci, nell’altro ci sono io e quelli come me – persone offese e malate, consapevoli e rassegnate alla inadeguatezza acquisita con la malattia, che li confina in spazi angusti in cui i sentimenti del passato non devono penetrare – Le esperienze fatte in questo mondo ti maturano in fretta, però non ti permettono di portare con te i sentimenti e le speranze che accompagnano la giovinezza. Sono qui da un tempo sufficiente per pretendere che tu creda alla legittimità delle mie parole”.
Ero sconcertato dalle affermazioni di Elena e reagii con un tono di rimprovero:
“La vostra è una scelta non solo sbagliata ma anche drammaticamente egoistica. Perché rinunciare ad ogni affettività, perché respingere chi vi ama e costringerli ad esiliarsi dai sentimenti? “.
Elena replicò in modo concitato e febbrile:
“Evitare umiliazioni e infamità tu lo consideri una scelta sbagliata e un atto di egoismo? Non puoi immaginare quanta umiliazione si celi tra le pieghe dell’ostentata compassione di chi ti guarda, e quanta infamità nei loro gesti involontari per mantenere la distanza di sicurezza dal contagio, nonostante i medici lo escludano in modo assoluto”.
“E i tuoi genitori e le persone che ti amano? Anche nei loro occhi sei riuscita a leggere qualcosa di diverso dall’amore e dal riflesso della tua stessa sofferenza? le chiesi risentito.
“I miei genitori sono l’unico contatto che conservo con il mondo di prima, sono la loro figlia, e loro possono perdonarmi di non essere più la stessa persona” – rispose con voce strascicata.
“Quanto hai affermato evidentemente non vale per tutti gli ospiti” – dissi cercando di mitigare il tono provocatorio della mia domanda – “a quanto mi risulta Gabriella si è rifatta con soddisfazione dalle rinunce patite allontanandosi da quello che tu definisci “il mondo di prima” – aggiunsi con malcelata ironia.
“Rifletti per un istante sulla condizione drammatica in cui si è costretti a vivere qua dentro, e poi dimmi quali azioni non saresti disposto a giustificare per avere una tregua alla sofferenza” – ribatté Elena col tono di chi cerca di evitare di scendere nei particolari.
Ma poi vista la mia espressione scettica proseguì – “Nessuno qui pretende un amore che non può corrispondere, la passione è una cosa spenta e un’avventura, circoscritta tra quattro mura, è desolante. E io non condanno chi cerca, anche attraverso un compagno occasionale, l’illusione di una fuga da queste miserie” – concluse amaramente Elena.
“Quindi a parte i tuoi genitori, nessun altro è degno di continuare ad amarti? Sei molto graziosa per non avere qualcuno che ti ami di un amore vero” – le chiesi con un sorriso incerto.
“Sì, avevo un ragazzo. Ci legava un grande sentimento e insieme abbiamo vissuto momenti molto felici, gli ultimi momenti felici della mia vita. Ed è in giornate come questa che mi sento assalita dalla peggiore malinconia. Eravamo proprio qui, dove siamo noi ora, quando per la prima volta vidi qualcosa che mi fece più male della malattia: la pietà negli occhi di chi mi ha amata. E fu come se la macchia maligna che ha minato il mio fisico avesse aggredito, come una metastasi inarrestabile, anche il nostro sentimento. Gli chiesi di non tornare mai più”.
Queste furono le ultime parole che Elena riuscì a pronunciare, con la voce rotta dalla commozione, poi abbassò gli occhi diventati troppo lucidi.
La tragica narrazione di Elena mi lasciò senza scampo, pervaso da un senso di insanabilità, come se in quel luogo non ci fosse più nulla da salvare, tutto era già sopravvissuto a qualcosa di terribile.
Mi alzai e vidi che al di là degli alberi il viale era deserto. Presi la mano di Elena tra le mie in un gesto di commiato che escludeva le parole, mentre una sensazione di pena e rincrescimento mi trafiggeva il cuore.
Andai via portando con me l’eco delle parole di Elena, e con il triste presentimento che le medesime parole Marco le avesse udite pronunciare dalle labbra di Gabriella.
Marco mi stava aspettando appoggiato alla macchina, a capo chino fissava un punto imprecisato del terreno, forse l’unico in tutto l’universo in cui non era dilagata la sua disperazione. Non si accorse del mio arrivo e si scosse solo quando aprii la portiera. Salimmo in macchina senza scambiarci una parola. Non c’era nulla da aggiungere alla sceneggiatura tragicamente perfetta scritta dal destino.
Mi sforzai di provare la sua stessa disperazione ma mi riusciva solo di compiangerlo. Desideravo con tutto me stesso di poterlo aiutare, di dargli sollievo attraverso consigli e la condivisione del suo stato d’animo, di regalargli un minimo di consolazione, ma avevo intuito che, per pudore, lui stesso mi aveva nascosto molte cose, limitandosi a confidarmi solo quanto poteva servirmi per sorreggerlo. Ed io, con le parole di Elena che ancora turbinavano nella mia mente, mi stavo rendendo conto che con più mi inoltravo nei tentativi di mostrargli la mia complicità, maggiore era l’obbligo di dovergli mentire.
“Il dolore passa, tutti i dolori passano, anche il più inspiegabile e ingiusto, come quello per un amore che ti viene strappato via. Il tempo porterà lontano anche il ricordo del lamento e del rimpianto, e domani, quando un volto, un sorriso o una voce lo farà tornare, sarà privo di sofferenza e potrai rivestirlo di tenera nostalgia”.
Marco sembrò non aver udito le mie parole e, solo volgendo lentamente il capo verso il finestrino laterale, trovò la forza per dire:
“Mi ha chiesto di non tornare più”.
Rimanemmo in silenzio per tutto il resto del tragitto. Lui insisteva a guardare fisso la campagna che si stendeva davanti ai suoi occhi, un paesaggio senza rilievi, a eccezione di qualche fattoria sparsa qua e là in cui risaltavano silos agricoli, insufficienti a rompere quella monotonia piatta che avrebbe potuto strapparlo ai suoi angosciosi pensieri. Forse piangeva.
Adso
Con questo toccante racconto Adso ci mette di fronte ad una realtà molto dolorosa… che ne pensate? Siete d’accordo col comportamento della ragazza? Lo capite?
Porzia, curiosando in internet, ha trovato questo articolo interessantissimo che ci segnala;
accipicchia quante paure, ma quante…..
CE L’ABBIAMO TUTTI UNA O PIù PAURE…
E VOI CHE PAURA AVETE?
QUALI PENSATE SIANO LE PAURE PIù COMUNI E FREQUENTI?
Leggendo sui giornali articoli riguardanti persone che soffrono di malattie psicosomatiche o di strane fobie, la prima reazione che abbiamo è un senso di estraneità alla vicenda, come se la cosa non potesse mai aver nulla a che fare con la nostra vita privata.
Tutti sono convinti di rientrare nella “normalità” e guardano sospettosi il vicino di casa depresso o il collega di lavoro puntiglioso… senza dar mai alcun peso alle proprie manie ossessivo-complusive (tipo controllare tre volte di aver puntato la sveglia prima di andare a dormire, assicurarsi ripetutamente di aver chiuso la porta di casa o il gas… ma anche irritarsi nel trovare il tubetto di dentifricio schiacchiato al centro o nello scoprire che cd e dvd non sono in perfetto ordine alfabetico !!!).
La società in cui viviamo a poco a poco ci sta facendo impazzire, e ci abitua a considerare naturali degli atteggiamenti e delle reazioni che non sono tali. Esiste tutta una serie di comportamenti che reiterati nel tempo vengono considerati dalla comunità medico-scientifica alla stregua di altre malattie ben più comuni.
Vi propongo un elenco sintetico che cita solamente alcune di esse: leggendole scoprirete di non essere poi così “normali” … ma non è necessario correre a prenotare una visita dallo psichiatra: pare che il 37% della popolazione europea sia affetto da almeno una di queste patologie.
ablutofobia paura di fare il bagno; – acluofobia paura del buio
acusticofobia paura del rumore; – acrofobia paura dei luoghi elevati
agorafobia paura degli spazi aperti; – ailurofobia paura dei gatti
alectorofobia paura dei polli; – amatofobia paura della polvere
androfobia paura degli uomini; – anemofobia paura del vento
apifobia paura delle api; – aracnofobia paura dei ragni
aurofobia paura dell’oro; – automisofobia paura di essere sporchi
aviofobia paura di volare; – bhacillofobia paura dei microbi
bibliofobia paura dei libri; – bufonofobia paura dei rospi
carcinofobia paura di ammalarsi di cancro; – catisofobia paura di sedersi
colerofobia paura della collera; – chinofobia paura della neve
cibofobia paura del cibo; – cromofobia paura dei colori
cinofobia paura dei cani; – cinetofobia paura del movimento
climacofobia paura delle scale; – claustrofobia paura degli spazi chiusi
ciclofobia paura della bicicletta; – coulrofobia paura dei clown
dendrofobia paura degli alberi; – decidofobia paura nel prendere decisioni
dermatofobia paura delle lesioni della pelle; – dentofobia (o odontofobia) paura del dentista
didascaleinofobia paura della scuola; – dichefobia paura della giustizia
dipsofobia paura di bere; – disabiliofobia paura di spogliarsi di fronte a qualcuno
dromofobia paura dei mezzi di locomozione; – dismorfofobia paura di non avere un aspetto normale
ecclesiofobia paura delle chiese; – eisoptrofobia paura degli specchi o di vedervisi riflessi
electrofobia paura dell’elettricità; – eleuterofobia paura della libertà
eliofobia paura del sole; – emetofobia paura del vomito
enofobia paura del vino; – emofobia paura del sangue
equinofobia paura dei cavalli; – entomofobia paura degli insetti
ergofobia paura del lavoro; – eremofobia paura della solitudine
erpetofobia paura dei rettili; – ereutofobia (o eritrofobia) paura di arrossire
falacrofobia paura di diventare calvo; – eufobia paura di sentire buone notizie
filofobia paura di innamorarsi; – farmacofobia paura delle medicine
frigofobia paura del freddo; – fonofobia paura dei rumori
gefirofobia paura nell’attraversare i ponti; – gamofobia paura del matrimonio
gimnofobia paura della nudità; – glossofobia paura di parlare in pubblico
iatrofobia paura del medico; – ginofobia paura delle donne
ittiofobia paura dei pesci; – idrofobia paura dell’acqua
mastigofobia (o rabdofobia) paura delle punizioni; – keraunofobia paura dei tuoni
micofobia paura dei funghi; – melofobia paura della musica
necrofobia paura della morte; – musofobia paura dei topi
nosocomefobia paura degli ospedali; – nictofobia paura della notte
ofidiofobia paura dei serpenti; – odinofobia paura del dolore
ombrofobia paura della pioggia; – oicofobia paura della casa
omofobia paura dell’omosessualità; – ommetafobia paura degli occhi
pagofobia paura del ghiaccio; – ornitofobia paura degli uccelli
papirofobia paura della carta; – papafobia paura del papa
patofobia paura delle malattie; – parassitofobia paura dei parassiti
pirofobia paura del fuoco; – pedofobia paura dei bambini
radiofobia paura delle radiazioni; – plutofobia paura della ricchezza
scolecifobia paura dei vermi; – sciofobia paura delle ombre
scriptofobia paura di scrivere in pubblico; – scotomafobia paura di diventare ciechi
sfecsofobia paura delle vespe; – selenofobia paura della luna
siderofobia paura delle stelle; – siderodromofobia paura dei viaggi in treno
stenofobia paura degli spazi stretti; – staurofobia paura dei crocifissi
tafofobia paura dell’essere sotterrato vivo; – tacofobia paura della velocità
talassofobia paura del mare; – tecnofobia paura della tecnologia
termofobia paura del caldo; – tanatofobia paura della morte o di morire
tripanofobia paura delle iniezioni; – tossifobia paura di essere avvelenati
vaccinofobia paura delle vaccinazioni; – tropofobia paura del muoversi
xantofobia paura del colore giallo; – verbofobiapauradelleparole
zoofobia paura degli animali; – xenofobia paura degli stranieri
Ne abbiamo dimenticata qualcuna?
Per sfatare un po’ tutte queste paure una vignetta di PV(Pietro Vanessi) che vi farà un po’ ridere e un po’ riflettere…
Ed ora, se vi va PARLIAMONE…
Quante volte sarà successo anche a voi di osservare le nuvole e di guardare le stelle con curiosità, con occhio diversamente attento, pensando di scorgerci un’immagine conosciuta, di scoprirci qualcosa di speciale, anche poetica.
Ugualmente accade con le “macchie” sui muri…
Alfred-Lollis ci propone queste sue osservazioni fatte in una notte d’estate…
Pareidolìa
L’altra sera eravamo seduti in cortile: si chiacchierava come si chiacchiera nelle sere d’estate quando ci si riunisce in cortile con i vicini al fresco, aspettando l’ora di andare a dormire.
Le sere d’estate in campagna sono lunghe, più lunghe delle sere d’inverno a casa.
Si cena più tardi, si scende in cortile, si aspettano i vicini che finiscano di cenare per prendere il caffè assieme, qualcuno porta i gelati, altri da bere. I bambini fanno gli ultimi giri di bicicletta prima del buio.
Aspettiamo ad accendere il lampione: le zanzare arriverebbero subito ad assaggiarci.
Ecco, ora è buio: sono quasi le dieci. Accendiamo la luce.
Mentre gli altri parlano sono attratto da una curiosa macchia scura formatasi nell’intonaco della casa del vicino: sembra un cagnolino!
<La vedete anche voi?> chiedo.
<Si, è vero!> risponde qualcuno.
<Io vedo un vecchio!>, <Io vedo un maialino> <No, il maialino io non lo vedo!>
Tutti in quelle macchie scure nell’intonaco della casa di fronte riuscivano ad intravvedere qualcosa. Una macchia di pittura scrostata sul muro di una vecchia casa di campagna.
Una macchia dai contorni irregolari, all’altezza degli occhi
Tutti vedevano un qualcosa che spesso solo loro vedevano: eppure la macchia era quella, per tutti, non cambiava.
<È come quando guardi le nuvole: ci vedi sempre qualcosa> dice un bambino.
< Anche nel disegno del pavimento!> dice un altro.
Laura allora, racconta di una sua amica che, preoccupata, si era rivolta al suo medico, chiedendogli se stesse diventando pazza, perché le sembrava di scorgere volti ovunque.
Poi, proprio ieri, gironzolando in rete per caso, trovo in “Wikipedia l’enciclopedia libera”, alcune informazioni che riguardano il fenomeno.
Pensando che la cosa possa interessare l’ho riportato.
La pareidolìa (dal greco είδωλον, immagine, col prefisso παρά, simile) è l’illusione subcosciente che tende a ricondurre a forme note oggetti o profili (naturali o artificiali) dalla forma casuale.
È la tendenza istintiva e automatica a trovare forme familiari in immagini disordinate; l’associazione si manifesta in special modo verso le figure e i volti umani. Classici esempi sono la visione di animali o volti umani nelle nuvole, la visione di un volto umano nella luna oppure l’associazione di immagini alle costellazioni. Sempre alla pareidolìa si può ricondurre la facilità con la quale riconosciamo volti che esprimono emozioni in segni estremamente stilizzati quali le emoticon.
Un celebre caso di pareidolia: il Volto su Marte, una formazione rocciosa marziana ripresa dalla sonda Viking 1, che appare come un volto. Si ritiene che questa tendenza sia stata favorita dall’evoluzione perché consente di individuare situazioni di pericolo anche in presenza di pochi indizi, ad esempio riuscendo a scorgere un predatore mimetizzato.
La pareidolia consente spesso di dare una spiegazione razionale a fenomeni apparentemente paranormali, quali le apparizioni di immagini su muri o la comparsa di “fantasmi” in fotografie.
Un fenomeno analogo alla pareidolìa (una sorta di pareidolìa acustica) si verifica anche per le percezioni uditive, quando si crede di sentire suoni, parole o frasi significative in rumori casuali, come quelli ottenibili da registrazioni eseguite al contrario. Numerose leggende riguardo a presunti messaggi satanici inclusi in canzoni rock ed heavy metal (ad esempio, il caso di Stairway to Heaven dei Led Zeppelin o di Revolution 9 dei Beatles) sono, secondo un’opinione diffusa, da attribuirsi semplicemente a questo fenomeno, amplificato dai fan e in alcuni casi sfruttato a scopi commerciali dall’industria discografica.”
E adesso a voi, che ci scorgete in questi segni? che vi ricordano o in cosa stimolano la vostra fantasia? Avete voglia di provare?
Per chi ne ha voglia un articolo attuale da commentare, proposto da Guglielmo – Gugli
Credo che tutti noi siamo al corrente che nella vita di oggi, a dir poco strana e frenetica, tutti corrono per qualche motivo, tutti si affannano per raggiungere qualcosa, non ultima, anche una parte di felicità che dia un senso alla vita stessa.
Se ci si guarda attorno, vediamo tanti stati d’animo diversi, gente che gira per strada silenziosa, altra che parla con chiunque incontra, altra ancora che ha un fare quasi scocciato.
Tutto questo è bello se vogliamo, le cose varie non stancano mai, non si ha modo e motivo per annoiarsi.
Di una cosa però mi sento rattristare, una cosa che non ha nulla a che vedere con la buona armonia tra tutti noi, una situazione che rende le persone a volte odiose, a volte scatta in me la tristezza che possono esistere queste persone.
Vi chiederete perchè dico questo, semplice, mi sono accorto che tra noi esistono purtroppo persone cattive, ma non solo caratterialmente, ma cattive dentro con tutto e con tutti.
La cattiveria è una delle cose che non sopporto, ma non parlo solamente della cattiveria fine a se stessa, ma anche quella forma nascosta, che forse è anche più grave.
Ci sono persone che la mostrano quotidianamente in ogni momento e luogo, quella che più m’infastidisce è quella che non si vede ma che la si sente nell’aria e che spesso emerge attraverso i mezzi d’informazione, la cattiveria per esempio che si trova tra le mura domestiche, nascosta, ignorata ma pericolosissima.
Esistono diverse forme di cattiveria, mi spiego, cattiveria fine a se stessa e cattiveria dettata da invidia, gelosia e non mi spiego di cosa d’altro.
Sfogliando i giornali durante il giorno e guardando i mezzi di comunicazione come la televisione, ci si rende conto che è molto diffusa. Quante volte vengono alla luce maltrattamenti nelle case, tra parenti, tra persone che non hanno nulla a che vedere con questa realtà.
Poi esistono tante altre forme e sopratutto motivazioni sterili, ultima per cronologia, quella successa qui in chat da utenti che sono stati cacciati fuori, spero a vita.
Mi domando spesso se tutto questo possa avere un senso, mi chiedo a cosa possa portare la cattiveria che spesso sfocia anche in odio.
E’ agli occhi di tutti e un po’ tutti ne siamo a conoscenza, che la buona armonia ha sempre dato buoni risultati, la cattiveria ha sempre portato all’odio ed alle ingiustizie.
Questo è il mio personale pensiero della cattiveria umana, neppure gli animali sanno imitarci, non dico esserlo, loro sfogano questo lato bruttissimo della nostra realtà, solo per difendersi oppure quando hanno fame.
Mi auguro di tutto cuore che tutto questo un giorno si possa sistemare, anche se, nelle rosee previsioni, sarà durissima ma se così avvenisse, molte cose cambierebbero e la vita sarebbe, anche nelle più tristi realtà migliore.
Si sistemerà? A voi la parola…
La conversazione, come forma di scrittura, e il raccontare di sé sul Web.
Istant messaging, chat, mondi virtuali sono tutte espressioni della tecnologia del nostro millennio.
Pensate a una conversazione (scrittura) con una persona sconosciuta:
Ha cambiato la vostra prospettiva o dato forma a una nuova realtà?
Leggere quello che scrive vi ha aiutato a vedere l’altra persona e voi stessi in modo più chiaro?
Vi ha lasciato un’inspiegabile sensazione di vicinanza?
E la sensazione ha perdurato ore, giorni, o anche più?
Questi nuovi sistemi di comunicazione pongono, a volte, un problema non marginale che è quello del tradimento.
E’ di questi giorni il caso di una donna che ha chiesto la separazione dal marito poiché scoperto su Second Life ad avere una relazione omosessuale.
C’è poi il pronunciamento del Tribunale di Treviso che ha dichiarato se il tradimento è virtuale sempre di tradimento, si tratta!
Quanto una relazione virtuale può avere effetti negativi sulla vita di coppia reale?
Il mondo virtuale può diventare talmente reale da far credere che il desiderio fisico sia vero, anche se non si è mai vista, respirata, toccata, annusata la persona?
Il dialogo instaurato con l’Altro/a è un vero dialogo o è un monologo con una parte di sé?
Oltre al piacere di raccontarsi, di confrontarsi, di fare amicizia Internet è solo evasione o qualcosa di più?
Alla mia domanda del perché la persona Ics intratteneva un rapporto “virtuale” con la persona Ipsilon, mi ha risposto testualmente:
Perché questo gioco mi diverte, questa seconda vita mi dà stimoli.
Preciso che Ics “tiene famiglia” e non mi risulta abbia problemi con il proprio partner.
Il problema è che in Internet si tende a innamorarsi facilmente perché l’inconsistenza di un rapporto virtuale lascia spazio alla fantasia per “idealizzare” l’amore.
Affinità virtuali si trasformano spesso in tradimento virtuale e il passaggio a quello reale è altrettanto rapido.
Le conversazioni ci dicono chi siamo?
Poesia, di autore ignoto, che parla di amicizia virtuale in un modo semplice e carino.
L’amicizia virtuale
non ha distanze né frontiere.
Ha un viso sconosciuto e immaginario
con gran cuore
che tutti i giorni
si occupa di te,
si confida con te…
condivide con te le sue scoperte
e si augura le cose più belle per te.
La sera viene a portarti la buonanotte
e a dirti… “A domani” e
spesso è la prima la mattina a darti
il buongiorno
E’ un’amicizia che senti… reale
benché virtuale..